Un membro della Yakuza, Yamamoto, dopo aver subito una sconfitta in una guerra contro una banda rivale, si reca negli Stati Uniti per incontrare il fratello Ken. Conosce per caso il gangster Denny, che lo introduce nell'ambiente della malavita locale.
Diretto da: Takeshi Kitano
Genere: thriller
Durata: 114'
Con: Takeshi Kitano, Omar Epps
Paese: USA, UK
Anno: 2000
Dopo una terna di capolavori come Sonatine (1993), Hana-bi Fiori di fuoco (1997) e L’estate di Kikujiro (1999) non è facile per Takeshi Kitano ripetersi.
Brother (2000), girato nella sua prima e ultima trasferta in terra statunitense, a Los Angeles, è un film compatto, ma non significativo come i film precedenti del regista.
Beat Takeshi riprende da dove aveva finito: come nel teatro Rakugo, armato di un solo ventaglio e di un telo, racconta nuovamente la sua versione della Yakuza.
Dal punto di vista dell’enunciato riesce ad assolvere ai propositi di buona parte della sua poetica iconoclasta (lo stesso Aniki, il protagonista, la espone nel film: ”faccio la guerra anche in America”) non solo riducendo all’osso, a volte fuori campo, il protrarsi delle scene di zuffa e spada, botte e pistole, prosciugando l’enfasi e la divinizzazione dell’hero hollywoodiano e la sua immortalità, ma soprattutto attaccando un caposaldo, la cattedrale degli impianti sistemici di grandissima parte del cinema americano: la famiglia naturale.
Aniki lascia la sua eredità, la sua borsa piena di storie violente, soldi e onori, nati in Giappone e finiti negli Stati Uniti, al suo fratello elettivo, non a quello di sangue.
Realizzeremo così anche l’originalità di una scena posta all’inizio del film: un dialogo, un campo e un controcampo medio, tra Kitano e i busti di tre personaggi, tra cui il fratello biologico di Aniki. Non vediamo il loro volto ma sentiamo le loro voci: Aniki non parla con loro ma con il primo piano di una sedia vuota, trono che aspetta l’investitura del suo nuovo brother Denny (Omar Epps)
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Quello che invece non ci sembra funzionare a pieni giri è il suo tipico procedere fatto di ellissi a strappi, schizzate come un cartoon, inquadrature come infrazioni, perchè i suoi personaggi non riscaldano a dovere i cambiamenti, le decisioni, le trasformazioni di segno che vedremo nelle inquadrature successive.
Perchè Aniki merita così tanta devozione da parte dei compagni?
Perchè Aniki, potendo ricominciare una nuova vita, invece riprende come se niente fosse la trama interrotta del delinquere giapponese?
Come mai tutti accettano la missione suicida contro la mafia italiana?
Le questioni di stile rischiano di dover guadare uno stagno di script e interpretazione.
Anche il suo peculiare pendolo tra tenerezza e violenza, tra comicità e dramma, non oscilla puntualmente. Il ritmo qui è quasi tutto dalla parte oscura della tenzone.
Eppure ‘Brother’ rimane pur sempre un lavoro di Kitano. Pervaso dal suo senso di rinuncia alla simmetria e alla giustizia.
Perturbato dalla sua capacità di scorporare personaggi e luoghi, renderli appiattiti, al limite della decorazione e del fumetto (fondamentale in questo caso anche l’uso dell’amplificazione e trasformazione dei suoni e rumori), ma naturalmente e magicamente universali.
Per Kitano lo scenario di sfondo, la città come quinta, quasi non esiste: la profondità di campo è azzerata, la scena umana è in primo piano, vista come una specie di avamposto, che lotta contro la solitudine e la morte. La superficie del mondo è ancora quella del viso di Takeshi, maschera di cicatrici e tic, sempre imperturbabile, spesso spietata, raramente sotto l’impeachment di una risatina.