Deve essere sicuramente riconosciuta a Richard Linklater una curiosità notevole per i tanti e diversi territori che possono essere percorsi dal Cinema. Il cineasta americano, conosciuto soprattutto per la trilogia sentimentale iniziata con Prima dell’alba (per chi scrive, i suoi lavori più deboli), si è dimostrato già sensibile nei confronti degli anni giovanili (Dazed and Confused), già incline a un approccio sperimentale (Waking Life), e soprattutto già caro a racconti anticonformisti e ribelli (School Of Rock). Boyhood, vincitore del premio per la miglior regia all’ultimo Festival di Berlino, racchiude un po’ tutte queste anime, arrivando probabilmente al punto più alto della sua poetica e della sua idea di Settima Arte.
Dal 2002 al 2013, Linklater ha chiamato sul set ogni anno per pochi giorni lo stesso quartetto di attori (Ethan Hawke, Patricia Arquette, Ellar Coltrane, Lorelei Linklater), per raccontare le vite dei loro personaggi, in modo particolare focalizzandosi sull’infanzia e sull’adolescenza di Mason, interpretato da Coltrane, che ha iniziato il film a 8 anni e lo ha terminato a 19, crescendo nella vita reale parallelamente alla crescita del protagonista. Lo stesso vale per Ethan Hawke e per Patricia Arquette, nel ruolo dei genitori di Mason, e per Lorelei Linklater, in quello della sorella Samantha. Niente viene affidato al make-up, l’invecchiamento che vediamo sullo schermo è quello che si portano dietro gli attori stessi. Così come la colonna sonora, le mode, gli eventi politici sono quelli che hanno caratterizzato il momento storico in cui è stata girata la pellicola.
Il grandissimo merito di Boyhood non si ferma, però, alla sua originalità, all’idea unica e geniale di mettere in relazione Vita e Cinema, facendole progredire ed evolversi in maniera parallela. Se Linklater non avesse avuto l’intelligenza e l’abilità registica di costruire gradualmente una narrazione così sussurrata, priva di scene madri e di sensazionalismi, non saremmo di fronte a un’opera talmente riuscita, certamente una delle più importanti del Nuovo Millennio. Le difficoltà, le inquietudini, i tumulti che vengono affrontati da Mason sono quelli che potrebbe aver vissuto qualsiasi adolescente: il rapporto con una coppia di genitori separati e, di conseguenza, quello con i nuovi rispettivi compagni; i primi innamoramenti e le prime relazioni sentimentali; i primi approcci all’Arte, attraverso l’interesse per la musica, per la letteratura e per la fotografia; il conseguimento del diploma; l’abbandono del proprio nido familiare e l’inizio del College.
Ed è proprio questa semplicità di racconto che rende magica la visione e che dona allo spettatore l’impressione di essere davvero “dentro” alle vicende del film, dandogli mai come questa volta la sensazione che al termine dei titoli di coda non siano trascorse 2 ore e 40 minuti ma che si sia stati spettatori privilegiati di quei 12 anni, rimanendo sempre accanto a Mason, tagliando le parti noiose della Vita ma assistendo ai suoi momenti più significativi. Boyhood è questo: un coming-of-age che prende di petto il desiderio di identificazione di chi guarda, ponendo inevitabilmente l’interrogativo se il Cinema possa essere uno specchio fedele dell’esistenza, oppure se le necessità della Settima Arte di una narrazione sintetica debbano forzatamente prendere il sopravvento.
Seppur alcuni passaggi non siano del tutto compiuti, il risultato è l’espressione di un nuovo miracolo cinematografico. Linklater si è affidato all’Ignoto, alla Storia che deve ancora essere scritta, ma non ha lasciato da parte l’emozione: le giornate di Mason e di Samantha trascorse insieme al padre (un commovente Ethan Hawke) giocando a bowling, andando alle partite di baseball o ascoltando i Beatles sono struggenti, di una intensità assoluta; il discorso finale della madre (una immensa Patricia Arquette) sull’inafferrabilità della Vita, sulla sua fugacità, sulla sua apparente consistenza, possiede il dono dell’autenticità, e della lacrima.