Nere sono certe notti, come quella in cui il giovane Leo, irruente figlio di Luciano, impallina la saracinesca di un bar protetto da un boss locale: l’intimidazione, per lui, vuol dire coraggio, onore.
Nero è quel sottopassaggio ombroso, sul tragitto Milano-Calabria, dove sfreccia l’auto di Luigi, fratello minore di Luciano, che dopo aver accolto il nipote per qualche giorno decide di raggiungere la terra d’origine, Africo, lasciando momentaneamente gli affari di droga che lo legano all’Olanda: l’eco delle pallottole è un richiamo irresistibile, il territorio – più che la terra – va difeso. Nero è il cuore di quella terra, offuscato dallo strascico di vecchie storie (un pastore assassinato), con le persiane che si serrano nella reticenza e nell’angoscia dei rosari. Al capofamiglia, il fratello maggiore, poco capo, più portato ad addomesticare il passo del bestiame che i bradi propositi della famiglia, non resta che vedere addensarsi, nell’assolato ed arroccato paesaggio calabrese, i presagi d’un passato che ritorna e di una faida che minaccia d’insanguinare il futuro. Ammesso che ci sia, un futuro, là dove il tempo sembra essersi fermato.
Anime nere di Francesco Munzi ha raccolto molti consensi alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia, pur rimanendo all’asciutto quanto ai premi più ambiti. È vagamente indicativo di un film adombrato, più che adulatore; di una storia raccontata col brivido del climax, ma senza barocchismi o ruffianerie; di una concatenazione di eventi che non ha tanto della logica ferrea, quanto dello scatto inevitabile, di un destino plumbeo che viene a farsi carne – meglio: ferita. Questa mistura tra tono sovratemporale da tragedia familiare e realismo poco compiacente, in cui puzza il marcio dei criminali almeno quanto il manto di capra, prende forma in una messinscena cupa: il noir non è solo l’atmosfera congeniale alla strategia della suspense, quanto l’umore necessario di un itinerario fatto di vicoli ciechi, ciechi furori e scelte senza orizzonte.
Adattata dal romanzo verità di Gioacchino Criaco (Rubettino editore), la narrazione incede con la propria inesorabile misura, come il passo pigro del gregge, e cionondimeno si avverte un crescendo della temperatura psicologica, a dispetto – anzi, in ragione – di ellissi, analogie, scarti. Se è vero che la migliore sceneggiatura è quella che avanzando lascia sempre meno possibilità ad un personaggio, il pregio più marcato del film di Munzi è proprio in questa asfissia obbligata, nella costruzione di gabbie in cui lo spazio d’azione diventa fatale, con tutte le conseguenze emotive, comprese clamorose esplosioni finali. L’algido amministratore di denaro sporco, il terzo fratello Rocco (Peppe Mazzotta), anch’egli calato da Milano in Calabria, sembra venuto a razionalizzare i lutti; Luigi (Marco Leonardi) sgozza una capra (che resta fuori campo) in un sinistro rendez-vous destinato a ripetersi ciclicamente; il boss locale, da cui dipende lo scatenarsi degli eventi, compare per pochi minuti nella prima parte, ma resta regista invisibile, come in una tessitura anonima del Fato.
La recitazione completa e sublima lo scenario immersivo tratteggiato da Munzi, facendo percepire agli stessi personaggi, prima ancora che allo spettatore, la pesantezza delle costrizioni: Luciano (Fabrizio Ferracane) consuma riti religiosi tra cortili semi-rovinosi e vani ombrosi, grevi; per quanto appaia un cavallo pazzo, lo stesso Leo (Francesco Fumo) macera con lo sguardo perso nel vuoto, disteso a letto, a contemplare un destino del quale si crede attore decisivo. L’imprevisto non è prevedibile, ma è sensato: la bolla di tensione deve scoppiare, nel come c’è tutta l’arte del film.
Anime nere di Francesco Munzi, scorrendo come una transumanza del sangue, è una storia di eruzioni ineluttabili, bollente nel coacervo emotivo – anche sopito, anche taciuto – ma regolare e distruttivo come una colata lavica.