Ventiquattro occhi

Nella piccola isola giapponese di Shodoshima, la maestra elementare Hideko Takamine ad una classe di 24 alunni. Le sue speranze per un futuro migliore si scontreranno con l'orrore della seconda guerra mondiale.
    Diretto da: Keisuke Kinoshita
    Genere: drammatico
    Durata: 156'
    Con: Hideki Goto, Itsuo Watanabe
    Paese: GIAP
    Anno: 1954
8.3

Nijushi no Hitomi (Ventiquattro occhi, 1954) di Keisuke Kinoshita è l’opera che riconsegna alla memoria la sua funzione di restituzione alla coscienza dei fatti della Storia.
Lo stile composito di Kinoshita si rivela nell’invisibile, impalpabilmente colossale e commosso. Ad ogni scena lo stacco di montaggio opera sul b/n come una cesura della mente, imprimendo all’emozione il valore di una conquista mai pre annunciata.

Nijushi no Hitomi racconta una storia ambientata in un’isola del Giappone contadino prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, del nazionalismo imperante, con il quale la maestra deve sempre fare i conti, della scuola come lusso riservato solo ai ricchi, di una società strutturata rigidamente, dove i maschi sono destinati ad arruolarsi e le donne rimangono a casa ad accudire i figli, e che sanno per certo che la maggior parte dei loro cari non torneranno vivi dal fronte.
La pulizia grafica ottenuta da Kinoshita ottiene il risultato decisivo, necessario, di inventare stile prima che lo stile diventi forma: mai il regista dirige sequenze che non facciano già parte di un flusso emotivo dipanatisi come narrazione di eventi inclusivi della Storia. L’essenzialità della regia in questo senso è totale. L’economia di mezzi assomiglia ad una relativitzzazione del soggetto (la Storia) nell’oggetto (la forma cinema).
Anche l’aver utilizzato un numero sempre crescente di scene fortemente patetiche, dove le lacrime diventano l’inevitabile torrente di dolori, e dove il trauma storico si fonde con quello privato, si spiegano in un utilizzo del primo piano di chiara derivazione rosselliniana.
La lezione di Ozu (la calma e la pacatezza di tono, il posizionamento della mdp quasi sempre ad altezza media, al livello del busto degli attori) si sente, ma manca del tutto il suo tipico stile di regia immobile: Kinoshita dirige un senso di catarsi, nella fusione catalizzatrice tra due concezioni di cinema: uno primitivo, embrionale, tipico dell’esordiente e la consacrazione autoriale, matura, raffinata, del genio già affermato.
La tendenza all’emozione valica i confini della pura rappresentazione sociale per farsi melò politico, dove la riflessione rivoluzionaria sull’essenza del comunismo, si rivela come effige di una rimozione catartica, in seno alla convergenza tra l’istinto belluino maschile e la necessità femminile di preservare la specie. La vita nella campagna si riassume come un dono mandato dal Dio Sole, la guerra spazza via tutto, riduce l’uomo in cenere, elimina i legami familiari, rende vedove le donne che, da sole, devono provvedere a se stesse e ai figli.
Kinoshita prende il tempo come una lunga, lenta peregrinazione che assomiglia ad una preghiera dissimulata nei volti scavati di non-attori in stato di grazia, nei cui occhi il tempo stesso si ferma e i rimpianti diventano voragini di senso, davanti alla vita scorre come un fiume placido, assecondato dall’impronta di uno sguardo che non osa mai rivelarsi. E’ l’arte di Kinoshita di mostrare la seduzione dell’emozione, attraversata dal concepimento della perdita come desiderio di un ritorno alla Madre Patria.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).