Al Grand Budapest Hotel dell'immaginaria Zubrowka, il direttore Monsieur Gustave ha tra i suoi clienti delle altolocate, attempate e vanitose signore. Una di queste, Madame D. muore. La sua famiglia accusa Gustave dell'omicidio. Quest'ultimo finisce in prigione, e solo il suo assistente Zero potrà salvarlo.
Diretto da: Wes Anderson
Genere: commedia
Durata: 100'
Con: Ralph Fiennes, Saoirse Ronan
Paese: USA, GER
Anno: 2014
Grand Budapest Hotel è stata l’occasione per Wes Anderson di fare i conti con la cultura mitteleuropea, che finalmente viene messa in scena attraverso lo sguardo del regista de I Tenebaum (2001).
In questo suo nuovo film, il brand autoriale che ne contraddistingue il tratto, rimane pressoché intatto. Ma quali sono le differenze rispetto alle altre sue commedie? Perché questo film finanziato in parte da capitali tedeschi (difatti il film poi è stato presentato al Festival di Berlino, in Concorso, vincendo il Premio della Giuria), risulta a tutt’oggi come il suo migliore?
Forse la risposta a questa domanda sta nella scelta del cast e nella totale sicurezza estetica con la quale Anderson ha orchestrato la vicenda. The Grand Budapest Hotel è costruito come una giostra piena di invenzioni visive, dove la narrazione viene sempre intervallata da stacchi di montaggio repentini che suggellano la fine e l’inizio di ogni scena, andando a costruire un mosaico fluido strettamente imparentato con un’idea di cinema vicina ad un ottovolante.
Nella storia del Direttore dell’Hotel che deve vedersela con la famiglia di sanguisughe di una ricca donna assassinata, che ha lasciato in eredità un testamento conteso tra le due parti; si vede sfilare davanti a sé vari esemplari di un’umanità sempre in bilico tra la caricatura grottesca e il lampo di genio.
E ricorda soprattutto che Anderson è autore di grandi quadri in movimento, con il suo tipico modo di girare a carrelli laterali, zoomate improvvise, dolly che portano ogni volta il cinema verso una mise en abime che spiazza, raffredda i toni, esaspera il contenuto, cristallizza la forma, porta in sospensione la narrazione, facendo entrare lo spettatore in un contesto di fantasy camuffato.
E ricorda soprattutto che Anderson è autore di grandi quadri in movimento, con il suo tipico modo di girare a carrelli laterali, zoomate improvvise, dolly che portano ogni volta il cinema verso una mise en abime che spiazza, raffredda i toni, esaspera il contenuto, cristallizza la forma, porta in sospensione la narrazione, facendo entrare lo spettatore in un contesto di fantasy camuffato.
Grand Budapest Hotel ha come punto forte una struttura narrativa potentemente comica, dove i personaggi riescono magnificamente ad esprimere la loro verve demenziale.
Tra tutti si ricordano Jeff Goldblum, Willem Dafoe (protagonisti di una magnifica sequenza di inseguimento, degna del cinema muto), Adrien Brody. Lo stesso Ralph Fiennes sembra nato per il cinema di Anderson. Ad ogni scena l’attore inglese dimostra cosa possa essere lo stile della comicità, inserita in un contesto sempre a metà tra il fiabesco e lo stralunato.
Wes Anderson non fa più il regista incerto sulla strada da prendere (era questo che rendeva Moonrise Kingdom un film così freddo), perennemente in cerca di un significato che renda il suo cinema il regno apolide di un’adolescente in piena età puberale. Dove lo scopo della visione si produce in una girandola di trovare, una più delirante dell’altra. Anderson così si può concedere il lusso del romance, del gangster movie, della riflessione sul tempo, del commiato elegiaco, del contrappasso dal dramma filosofico alla pernacchia demenziale.
Il profilmico in The Grand Budapest Hotel è una festa per gli occhi. Un cinema ricchissimo di dettagli che configura il nuovo modo di vedere la struttura narrativa ai tempi in cui il postmoderno è stato digerito, metabolizzato e si fa dunque istituzione classicista.
Il profilmico in The Grand Budapest Hotel è una festa per gli occhi. Un cinema ricchissimo di dettagli che configura il nuovo modo di vedere la struttura narrativa ai tempi in cui il postmoderno è stato digerito, metabolizzato e si fa dunque istituzione classicista.
Così Anderson evita definitivamente la maniera, istilla il dubbio di essere diventato un autore sicuro di sé, usa la fotografia di Robert D. Yeoman come una lastra smerigliata su cui far confluire dubbie e certezze dei suoi personaggi, non rimane più l’autore gelido de Il treno per il Darjeeling (2007) o Fantastic Mr. Fox (2009; non deraglia verso il manierismo geniale ma incompiuto di Moonrise Kingdom Una storia d’amore (2012). Con The Grand Budapest Hotel Anderson riesce a commuovere e a far ridere, con uno stile che prefigura il significato e lo traduce in meraviglia estetica.