Wall Street, 2008. Eric Dale sta lavorando ad un documento molto importante, di cui tutti sono all'oscuro. Ma un giorno viene licenziato in tronco. Prima di andarsene fa in tempo a consegnare la pen drive a Peter Sullivan, un brillante giovane. Sullivan arriverà a scoprire l'inimmaginabile.
Diretto da: J. C. Chandor
Genere: drammatico
Durata: 107'
Con: Zachary Quinto, Kevin Spacey
Paese: USA
Anno: 2011
J. C. Chandor, un altro cineasta venuto fuori dalla palude della post-Hollywood di questi tempi sciagurati, costretti a fare i conti con un’industria sempre più chiusa al prodotto mainstream dove gli effetti speciali costituiscono l’unico megafono delle emozioni. Questo “bolo” reazionario di ultra-cinematica iper corrotta dal Dio denaro, viene moderatamente intaccata da nuovi potenziali autori come Bennett Miller, J. C. Chandor, Jeff Nichols e pochi altri (oltre ai classici Scorsese e Eastwood).
E’ così che il sistema inizia a produrre i suoi anticorpi contro la standardizzazione. E anche se il film in questione, Margin Call (2011), che racconta in maniera mirabilmente analitica il Crac Lehman del 2008, pare venire dritto dall’estetica televisiva (script eccessivamente didascalici, assenza totale di fuori campo), la sensazione è quella di trovarsi ad un sulfureo, umanissimo instant-movie, dove l’istanza della “morte in diretta” del capitalismo viene filmata sul nascere.
E’ lo sguardo di Zachary Quinto sul monitor, che certifica la condanna dell’intero sistema, a dire più di qualsiasi strumento videoludico che si vede nella limousine di Cosmopolis (2012) di David Cronenberg: il minimalsimo di J. C. Chandor spiazza per lucidità. Lo stesso minimalismo verrà poi ripreso in modo ancora più radicale e intimista nel grande All is Lost Tutto è perduto (2013), dove Redford pare essere tornato ai livelli di Jeremiah Johnson (1972) e All the President’s Men (1976).
La frontalità televisiva di Chandor riporta alla memoria un cinema americano di cui si aveva perso la memoria.
La regia mai esagitata, il corpo a corpo nudo tra i pezzi grossi della finanza che diventa culto dell’assenza, emozione della verticalità eterogenea di una narrazione “a vortice” dove il dramma si istalla sull’unità di tempo di una sola notte, dove il tempo viene scandito come un metronomo inpietoso, che alla fine certifica il capitalismo come un’entità estranea all’umana comprensione.
Dati che viaggiano nei monitor su cui nessuno sembra aver controllo, con cui tutti giocano, che tutti manipolano, ma di cui nessuno conosce i segreti. Chandor dipinge sui characters come elementi di una geografia del flusso tematico infinito, dove la finitezza ultima del capitale come metro della società diventa perno su cui imbastire il thriller dell’attesa, la desertificazione dell’attesa e della morale.
Neanche George Clooney ha mai raggiunto questi livelli id consapevolezza teorica. Ma Chandor fa un cinema allo stesso tempo troppo semplice e mai abbastanza retorico o teorico per potersi permettere una filosofia della visione. E’ il bello del suo cinema. Una struttura nuda su cui lo spettatore può speculare a piacimento. L’autorialità senza la spocchia del piano sequenza fisso, che riprenda la dissoluzione del cinema come veicolo di transito di emozioni ineludibili.