In un futuro imprecisato è stata inventata una tecnologia che permette la scannerizzazione degli attori, per trasformarli in avatar digitali. L'attrice Robin Wright, ormai in declino, decide di accettare la folle proposta della Miramount.
Diretto da: Ari Folman
Genere: animazione
Durata: 122'
Con: Robin Wright, Danny Huston
Paese: ISR, GER
Anno: 2013
Forse non è molto furbo da parte di Ari Folman, con questo suo ultimo The Congress, tentare di far concorrenza a Hollywood sul suo stesso terreno, giocando con la retorica della realtà aumentata. Un discorso polemico sul mondo dorato (e falso) di Hollywood fatto da un elemento esterno al sistema, alle soglie del 2014, è il sintomo di una sospensione dell’incredulità, che nell’era digitale, assume il valore di una provocazione asettica e di maniera. Difatti, il gioco sui sentimenti che mutano in base all’assunzione di una droga, che porti tutti ad esaudire i proprio sogni è un terreno intrigante, ma sempre molto insidioso sul quale giocare. Ma Folman se lo è potuto permettere dopo il grande successo di Valzer con Bashir (2008), con il, quale aveva ottenuto un credito altissimo dalle major europee, riuscendo così a farsi finanziare questa su ultima cine-follia.
Hollywood non avrebbe comunque mai speso un soldo per un’animazione così raffinata e borderline. The Congress altro non è che una coproduzione europea con attori americani, elemento non da poco, visto il risultato dell’operazione di un profilmico sempre molto elaborato dal punto di vista estetico; purtroppo questa ambizione non è sostenuta da un concept e uno script altrettanto validi.
Un adattamento del complesso romanzo di Stanislaw Lem avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque, ma Folman prende la questione con disinvoltura e leggerezza, andando a misurare un campo di distanze e proporzioni visive da far tremare i polsi.
Difatti, la banalità programmatica dell’assunto fa rimpiangere cosa sarebbe potuto essere The Congress senza tutte le sciocchezze su Hollywood, lo star system, le storie sui contratti, concentrandosi solo sull’apparato tecno-visivo, dove a farla da padrone sarebbe dovuto essere il contrasto tra realtà e finzione, che nel film rimane appena accennato.
Folman tenta di dare un’accelerata al suo discorso sull’interfaccia tra realtà/finzione, ma la forza centripeta del suo cinema si scontra con un apparato visivo in stile “Fuga dal mondo dei sogni”, dove l’amalgama spazio-psico-temporale regna in un cosmo caotico di forme senza origine, il che dal punto di vista della psichedelia si commenta con un applauso piuttosto sorpreso, che deve però in seguito fare i conti con un immaginario posticcio e tetro-retrò, dove i luoghi comuni generano l’inganno di una forma che tende a disperdere subito la sua carica eversiva.
The Congress è troppo cupo per essere preso sul serio, troppo slanciato verso una diversificazione pluralistica dei punti di vista, per farsi traiettoria onesta e tangibile di un’animazione che si perde in una guerra persa in partenza contro il sistema dei Grandi Studios. Ari Folman voleva una consacrazione autoriale dopo la sua precedente straordinaria (e ideologica) operazione di regia tellurica, ma finisce per ingoiare una stilizzazione formale sci-fi che non sembra appartenergli del tutto, costruendo un film d’animazione in acido, che ripropone un cyberpunk con venti anni di ritardo.