Quanto è importante il budget per la realizzazione di un film? Si può fare grande cinema con poco denaro? I francesi hanno negli ultimi decenni provato a rispondere con i film di Rivette, Godard, Resnais, Tavernier, Rohmer, Chabrol; Gus Van Sant con un film prodotto per la tv via cavo, Elephant, che vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2003.
Ma gli esempi più lampanti di cinema fatto con budget risibili, oggi si possono vedere nelle piccole opere di Alice Rohrwacher, Corpo celeste (2011) e Le Meraviglie (2014). Per non parlare di ufo estetici do La Bocca del Lupo (2009) di Pietro Marcello, esempio di un cinema mai visto, spartano, francescano, creato utilizzando frammenti di immaginario perduti in archivi spazio-temporali di cui si aveva perso memoria (torna in mente l’Herzog di L’Ignoto Spazio Profondo del 2005, ma là il cineasta tedesco invece di raccattare confusamente le immagini, era riuscito a dargli un senso ben più audace e affascinante).
Il cinema di Alice Rohrwacher nasce da una coproduzione tra Italia, Svizzera e Francia. Le Meraviglie da una coproduzione tra Italia, Svizzera e Germania.
Nel set tutto al naturale creato dalla Rohrwacher dove sono i soldi, dov’è il lavoro di profilmico a mascherare l’oggettiva povertà della messa in scena? Riesce a fare come il Gus Van Sant di Elephant, dove la povertà di messi viene messa in secondo piano dalla stupefacente fotografia di Harris Savides?
No. No accade. Il cinema della Rohrwacher non arriva neanche ad assumere contorni da video arte come nelle carrellate delle grotte de Lo Zio Boonmee di Weerasethakul.
Alla regista italiana a quanto pare non interessa la costruzione di un profilmico “digeribile”. L’estetica nuda “low-budget” si sente tutta e la Rohrwacher la assume quasi come un vanto.
Ma i capitali al cinema sono importanti. Cè un’altra cosa molto importante nel processo di pre-produzione, forse certe volte persino più importante del mero finanziamento: la definizione di un cast che dia una qualche legittimazione sul mercato al film.
Prima si sono citati i francesi, Gus Van Sant. Tutti cineasti che possono contare su cast all’altezza del ruolo. Volti non semplicemente “veri”, ma volti che sono già cinema.
Non è così per il cinema di Alice Rohrwacher. Prendo in considerazione specificamente la regista italiana, perché è l’emblema di un certo modo di vedere la definizione dell’immagine oggi nel cinema, in rapporto alle esigenze poetiche del realismo. Alla Rohrwacher il bello non interessa. Interessa un certo grado di realismo che spesso va apertamente contro una certa estetica diffusa nel cinema, quella dell’omologazione visiva. Il problema è che filmando a basso budget e usando in modo antidivistico il cast, la Rohrwacher sceglie di relegare il proprio cinema ad una nicchia di invisibilità che lo rende un oggetto né buono e né cattivo. Si rischia cioè di alienarsi la maggior parte del pubblico.
Questo porta a chiedersi: a che serve il cinema? Può una produzione senza un budget adeguato e un cast di facce poco note assumere una sua posizione nell’immaginario? Assolutamente sì: basta vedere i Sokurov (di cui Arca Russa rappresenta l’esempio perfetto), Kaurismaki, il Kiarostami degli inizi, i documentari di Herzog. Persino al Naomi Kawase dello straordinario Mogari no Mori (2007).
Il problema è di natura diversa: con un budget risicato e senza attori famosi si può fare grande cinema, è la conformazione finale del profilmico che interessa l’occhio dello spettatore. Il cosa si guarda filtrato dal come lo si guarda, l’occhio che forma la vertigine della visione e si innesta nel futuribile della memoria, come diamante non più grezzo, ma lavorato da un’ideologia della visione che si fondi con lo spettatore. E’ per questo che soprattutto nel cinema italiano la strada da fare è lunghissima. Forse impraticabile da percorrere. Ma forse si sogna semplicemente che l’Italia diventi un altro paese.
Il problema è di natura diversa: con un budget risicato e senza attori famosi si può fare grande cinema, è la conformazione finale del profilmico che interessa l’occhio dello spettatore. Il cosa si guarda filtrato dal come lo si guarda, l’occhio che forma la vertigine della visione e si innesta nel futuribile della memoria, come diamante non più grezzo, ma lavorato da un’ideologia della visione che si fondi con lo spettatore. E’ per questo che soprattutto nel cinema italiano la strada da fare è lunghissima. Forse impraticabile da percorrere. Ma forse si sogna semplicemente che l’Italia diventi un altro paese.