Janet si trasferisce in un nuovo appartamento, il numero 1303, in un edificio all'apparenza perfetto: spazioso, luminoso e con una stupenda vista sul mare. Ma nell'appartamento sono avvenuti in passato strani fatti, che potrebbero capitare proprio a Janet.
Diretto da: Michael Taverna
Genere: horror
Durata: 85'
Con: Mischa Barton, Rebecca De Mornay
Paese: USA, CAN
Anno: 2012
Se è vero che anche i film inutili possono contribuire a definire le traiettorie dell’industria cinematografica, 1303 3D di Michele Taverna è esemplare per la propria “istruttiva” bruttezza, da cui arguire due o tre cose sull’horror del terzo millennio. Su tutte, un paio sono complementari: la sempre più difficile “mitopoiesi” – in soldoni, una certa sterilità d’idee nello strutturare un immaginario innovativo e memorabile; la dannata – mai termine più appropriato – importanza di una solida esecuzione artigianale che sappia rinsanguare i tanti filmetti che fanno da riempitivi a dizionari e storie tascabili, quando, appunto, il prodotto è smaccatamente commerciale.
Sul primo aspetto, 1303 – 3D dichiara il proprio debito creativo con due scelte largamente indicative: la prima è quella di aderire alla febbre del remake, peggio, dell’americanizzazione di film giapponesi, peraltro – in questo caso – da un originale nemmeno così brillante (Aitaru Oikawa, 2007); la seconda consiste nell’utilizzo del 3D, la recente strategia di produzione per riportare la gente in sala, che sta cominciando a diventare un boomerang, perché in molte circostanze si riduce ad affannate postproduzioni e superflui effetti.
In un film spiccatamente realistico, ambientato per lo più in interni, serviva poco o nulla; si sorride, persino, quando si vedono le mosche digitalizzate in 3D, che annunciano la sconsolata putrefazione di buonsenso del fare immagini horror.
La storia, manco a dirlo, è quello dell’ennesima casa infestata. Gli inquilini sono noti figuranti: una ragazzina inquietante, come ne compaiono anche con make-up artigianali nelle candid cameras di Youtube; l’ombra di una suicida; il mostro nell’armadio; persino un padrone di casa un po’ polipone. Nell’appartamento incriminato va a vivere, e forse morire, la giovane Janet, esasperata da una madre alcolizzata e nevrotica, senza nemmeno la benedizione della sorella maggiore.
Quando una maledizione, invece, comincia a palesarsi, chiede aiuto al fidanzato, il quale ne capirà poco o nulla, ma farà in tempo a concedersi un surreale amplesso, da ascrivere ai tanti momenti inessenziali di un film integralmente scollacciato.
Non è l’apocalissi del genere, anzi: proprio un’esecuzione così imbarazzante porta a riapprezzare – per i pochi che non l’avessero fatto in prima battuta – i risultati recenti di film con L’evocazione o Insidious 2 di James Wan, che pur non inventando nulla erano riusciti a strappare vecchi, piccoli brividi con scaltra regia e strategica scrittura. Al cinema non spetta, sempre, di fare da avanguardia, quanto di fare… buon cinema.
La storia – antica – della Hammer Production e quella – recente – della Blumhouse lo testimoniano. Ma in 1303 – 3D mancano i fondamentali del cinema, non del genere: il fantasma che spintona i protagonisti è una bislaccheria risibile; i tentativi d’inserire il melodramma dialogato in brutta copia da Tennessee Williams, con la madre artista fallita ed i difficili rapporti filiali, sono velleità che avrebbero un senso, in un horror, solo con una sceneggiatura curatissima.
Manca, soprattutto, la base di ogni costruzione della suspense, con un montaggio che con discutibile timing stacca nel momento centrale delle evocazioni ectoplasmatiche, o si risolve in cambi di scena che sembrano quasi jump cut involontari, mentre il piano sequenza viene sprecato per noiose sequenze statiche. La colonna sonora che sottolinea i gesti con cambi di timbro, a mo’ di “comiche horror”, denuncia tutta la faciloneria di una regia che dissipa ogni potenziale sussulto.
Il nodo dell’horror del terzo millennio, allora, non si stringe tanto nell’asfissia creativa: la vecchia solfa può andar bene, se adeguatamente arrangiata – come The Ring (2002) di Verbinski da Ringu di Nakata, per citare il caso di un remake, o qualsiasi film di medio livello – anche modesti, come Dark Skies o Oculus – che faccia almeno lo sporco lavoro della tensione. Quando non si è pionieri, basta fare i mestieranti. L’infestazione più pericolosa di 1303 – 3D e dei prevedibili omologhi resterà, piuttosto, la mediocrità da terz’ordine.