Cinque suore vengono inviate nell' Himalaya, in un piccolo centro dove vive una comunità inglese, per aprire una scuola e un ospedale. Ben presto le condizioni climatiche provocheranno dei mutamenti tali nel loro comportamento, portando una di loro alla follia.
Diretto da: Michael Powell, Emeric Pressburger
Genere: drammatico
Durata: 100'
Con: Deborah Kerr, Kathleen Byron
Paese: UK
Anno: 1947
Un anno prima di girare Scarpette Rosse (The Red Shoes, 1948), Michael Powell e Emeric Pressburger diedero vita al lussureggiante, per certi versi esotico e secondo alcuni scandaloso Narciso nero (1947). Bisogna innanzitutto dire che per molti anni, forse addirittura decenni, i film di Powell e Pressburger sono stati praticamente invisibili. La critica ha adorato Michael Powell, ha costruito intorno al suo cinema una specie di monumento estetico che ha pochi eguali nella Storia del cinema.
Da Duello e Berlino (1943) fino a Scala al paradiso (1947), il cinema di Powell ha toccato vertici di poesia visiva di impareggiabile nitore: una volta tratteggiata questa linea poetico-teorica di piacere visivo estetico-estatico, negli anni a venire sarebbe diventato impossibile far dimenticare questo modo di concepire il cinema alla critica più radicale e oltranzista.
Si può vivere senza il cinema di Powell e Pressburger? I nostalgici (si tratta di un’armata ben agguerrita) non avranno alcuna fretta ad affermare: o Powell o niente.
E’ anche per questo che film come Narciso nero rimangono un unicum nella storia della settima arte. L’uso del technicolor accesissimo (ora visibile nello smagliante Blu Ray che regala una second life a questo cinema ancora tanto dimenticato dai più) che accende sapientemente gli stati d’animo dei personaggi, infuoca le passioni, i desideri e le angosce come un tizzone ardente che fa quasi tornare in mente la scuola dei mélo alla Victor Fleming.
Il nitore folle di Narciso nero è forse figlio dell’ascesi del technicolor di Via col Vento (Gone With the Wind, 1939)? Le stimmate di questo modo di concepire l’immagine ci sono tutte. Le differenze si possono semmai notare in fase di script.
In Narciso nero Powell racconta una follia che a Hollywood forse si rivedrà solo con Lynch e De Palma. Le cinque suore chiamate a lavorare in una vetta dell’Himalaya in seguito vedranno mutare il loro comportamento a causa del clima dei profumi del “narciso nero”, il fazzoletto di velluto acquistato in un negozio di Londra dal figlio del Generale, che simboleggia la follia e la perdizione dei sensi, è il motore e l’essenza stessa del cinema di Powell, che vede l’annunciazione del desiderio come motore per scardinare i dettami su cui si fonda una società (la dottrina ecclesiastica inglese), chiusa nelle rigide regole della vita di Chiesa. In questo contesto ben preciso si vuole sottolineare una cosa comunque importante: non c’è alcun intento anti clericale in Powell. Se così fosse il film sarebbe invecchiato malissimo, e così non è per fortuna.
Immerse in un ambiente esotico sconosciuto, tra i profumi di una cultura secolare di cui mai potranno capire il fascino, la comunità delle suore muta di comportamento: Suora Ruth sogna una vita sentimentale con Mr. Dean, Suora Clodagh ripensa di continuo alla sua vita prima di prendere i voti e al matrimonio che non c’è mai stato con un uomo che avrebbe potuto sposare, Suora Filippa coltiva fiori invece dei frutti.
In particolare, riguardo al personaggio di Suora Clodagh, i flashback che la ritraggono nei suoi anni precedenti ai voti, vennero tagliati dalla censura e oggi si possono vedere in tutta la loro più che normale consequenzialità. All’epoca deve essere sembrato indecente mostrare il personaggio più positivo e integro del film dover fare i conti con un passato così ingombrante.
Il fascino visivo di Narciso nero conserva però un’altra perla: lo straordinario strapiombo, al limite del quale Suor Clodagh, sprezzante del pericolo, a pochi centimetri dal vuoto di una caduta vertiginosa, suona la campana alle 5:45 del mattino. E’ in questa scenografia, che sembra più vera del vero (invece è tutta magnificamente ricostruita negli studios inglesi, anche perché all’epoca, nel 1946, sarebbe stato impossibile andare a girare nella vera Himalaya, con una troupe attrezzata di professionisti, oggi le cose sarebbero molto diverse), che si concentra gran parte del fascino visivo di quest’opera dal fascino sinistro e muliebre, dai colori che grazie al restauro donano alle distanze spaziali l”impressione di trovarsi di fronte ad un piccolo miracolo in 3D. Guardate lo strapiombo in alta qualità e vi sembrerà di stare dentro una delle scene di Avatar (2009), dove la sontuosa pittorica fatta a mano si eleva ad altezze incommensurabili e si contrappone alla luce riflettente, al mondo bidimensionale creato da Cameron: ancora una volta il cinema per superare l’impasse dell’incredulità dove considerare la finzione una categoria del visivo che renda la verità del finto di una semplicità e di una complessità disarmanti.