Robert Pupkin è un aspirante comico, il suo idolo è la star televisiva Jerry Langford. Pupkin tenta di convincere Langford del suo talento, finché un giorno, con la complicità di una fan ossessiva, decide di rapirlo, per prendere il suo posto nello spettacolo serale.
Diretto da: Martin Scorsese
Genere: commedia
Durata: 109'
Con: Robert De Niro, Jerry Lewis
Paese: USA
Anno: 1982
Il Ropert Pupkin di Robert De Niro è uno dei personaggi simbolo del cinema di Martin Scorsese, anche se a priva vista non sembrerebbe. Il regista americano è diventato famoso per film violenti come Taxi Driver, Toro Scatenato, Quei bravi ragazzi e Casinò. Soprattutto questi ultimi due, anche più della deriva scenografica-manierista che sposerà in seguito con Gangs of New York (2002) e The Departed Il Bene e il Male (2006).
Si potrebbe quasi dire che il cinema di Scorsese sia stato rovinato dalle performance sempre uguali di Joe Pesci, che interpretava sempre lo stesso ruolo, quello della bestia mafiosa, nei film della fase iniziale della carriera del regista americano. In contrasto con questo modello estetico, Re per una notte (The King of Comedy, 1982), in pieni anni ’80, inaugura la breve fase dello Scorsese leggero, con un trittico di commedia che proseguirà successivamente, con altre due perle immortali come Fuori Orario e Il colore dei soldi.
Quando si parla di anni ’80 le parole d’ordine sono: carrierismo, individualismo sfrenato, mito dell’apparenza, soldi facili, capitalismo imperante, liberismo come unica religione per il presente e per il futuro: la crisi non esisteva, l’orizzonte era radioso, i soldi piovevano a fiumi e lo svago e il benessere non erano più un lusso per pochi.
Re per una notte di conseguenza trasfigura l’estetica degli anni ’80 in un incubo grottesco, una farsa al vetriolo degli anni del successo a tutti i costi. Bisogna dire che dal punto di vista finanziario il film di Scorsese costò 50 milioni di dollari e fu un fiasco per il regista americano, come già era successo nel 1977 con New York New York : i milioni fatti con The Departed, Shutter Island e The Wolf of Wall Street erano ancora solo un miraggio per Scorsese.
L’autore di Taxi Driver doveva ancora passare per le forche caudine dell’insuccesso di lusso, come fosse una purificazione estetica, un’immolazione all’altare dell’autorialismo comunque mainstream, prima di approdare alle produzioni più celebrate e ad un robusto riconoscimento al box office.
Scorsese ha sempre avuto un’eccellente esperienza a Hollywood, non è mai stato un ingenuo, il suo cinema virtuoso, geniale, impostato su una dialettica contenuto/forma di smisurata grandezza, non ha mai avuto paura degli eccessi, nella costruzione di grandi affreschi dove l’ambizione si è sempre sposata ad un forte appeal nei confronti del pubblico, dimostrando una grande capacità di mediazione tra l’arte e le esigenze commerciali.
Di conseguenza, si può dire che, soprattutto nel procedimento della re-visione a distanza di anni, con Re per una notte inizia la fase sperimentale del suo cinema: il desiderio di rompere gli schemi e di fare il punto della situazione con il meccanismo da tritacarne delle major. “Io vi farò fare i soldi, ma allo stesso tempo, vi faro vedere qual’è la vostra vera natura”: questa è la filosofia del cinema di Scorsese applicata alla commedia, l’ambizione di trascendere il monito imposto da Hollywood (l’incasso è l’unica cosa che conta per sopravvivere dentro il sistema), mettendo in croce la fabbrica dei sogni, fallendo la prima volta l’approccio, con una commedia grottesca, dove un aspirante comico rivolta il mondo dello star system televisivo per conquistare la notorietà; portare successivamente il discorso su un livello di surrealismo comico ancora più pesante, con lo zenith di Fuori Orario; infine tirare le fila del discorso con Il colore dei soldi, mettendo la parola fine al decennio dell’edonismo sfrenato, con un’opera semplice, dovuta, piacevolissima da rivedere a distanza di 26 anni (andarsi a riprendere l’edizione in Blu Ray del film con Paul Newman, Cruise e la Mastrantonio è più che un obbligo: si può ri-vedere tutto quello che il cinema americano ha perso negli ultimi 30 anni).
Alla fine chi è che vince nella disputa tra la major e l’autore? Forse ha vinto la major, perché Scorsese non si è più avventurato nel genere e questo rimane un grande peccato. L’assenza di cinismo in questa “trilogia” dello Scorsese leggero sta a precisare che l’autore di Taxi Driver ha voluto giocare con i capitali della major, assistendo al disfacimento e alla resurrezione della Fabbrica dei Sogni.
Scorsese prende da Hollywood, perde la partita, Hollywood mette in allarme l’autore e mena vendetta. Scorsese riagguanta la vittoria con uno sberleffo estetico. La ribellione contro il sistema della major genera un cinema che è puro meccanismo guerrafondaio: l’incomprensione estetica come rifiuto di un conformismo raggiunto poi in seguito, con l’operazione di The Wolf of Wall Street, tarata apposta sui gusti delle nuove generazioni.
Ma in tempo in cui il cinema deve tamponare l’emorragia di spettatori, in fuga verso altri device, se Scorsese (ri)porta gli spettatori al cinema con un film modaiolo, la necessità del compromesso fa dimenticare la perdita (apparente, a suo tempo anche Wolf andrò storicizzato) di purezza, con un’altra farsa al vetriolo, che dichiari guerra (usando stilemi narrativi potentissimi e sempre diretti al basso ventre) contro questi tempi di miseria economica fortissimi.
Da Re per una notte a The Wolf of Wall Street cambiano i toni, ma la modalità espressiva non cambia. La guerra a Hollywood forse è tutt’ora una cosa molto seria. Anche se gli anni ’80 rimangono il decennio delle belle speranze e della virtù macchiate dal grottesco di un’impunità mai abbastanza compresa. Forse oggi si può riscoprire come quell’impunità, rivista con l’occhio di chi ha visto come è andata a finire la storia, sia diventata lo specchio riflesso di un modus operandi che non ha mai cessato di esistere.