Per decenni la commedia italiana ha sofferto di una sorta di “dittatura del bozzettismo”, di una sorta cioè, di menefreghismo, mischiata ad impossibilità di raccontare l’Italia senza scadere comunque in una infinita sarabanda di equivoci estetici che finivano per frenare la capacità da parte del regista di esprimere un ritratto che non fosse figlio di ideologie di destra, di sinistra, di centro, o semplicemente di apatia borghese.
Questo vale per tutti. Fin dai tempi di Carlo Vanzina e dei suoi Sapore di mare, I fichissimi, Yuppies Giovani di successo. Film che potevano anche far ridere, ma poi si andava a cercare il senso, ci si ritrovava in mano un pugno di mosche. Stessa cosa per le commedie di Pupi Avati, di Massimo Troisi, di Roberto Benigni, di Carlo Verdone, il più abile di tutti a fare il verso al qualunquista-arrivista più famoso degli anni d’oro della commedia italiana: Alberto Sordi.
In seguito abbiamo avuto quelli che una volta si chiamavano i “piagnistei di sinistra” di Nanni Moretti e Mimmo Calopresti. infine arriviamo ai cinepanettoni di Boldi-De Sica-Greggio, alla commedia morale pessimista di Paolo Villaggio e a Notte prima degli esami di Fausto Brizzi.
Ebbene, si può dire che Paolo Sorrentino con La Grande Bellezza abbia voluto puntare altissimo e fare il suo film più anticelebrativo e ambizioso.
Quello che ha voluto fare l’autore de Il Divo (2008) è un falò di tutta la commedia italiana degli ultimi 30 anni, tornando a quei modelli scomparsi nel tempo, alle parabole di Germi, ma soprattutto al cinema impossibile da replicare di Marco Ferreri. E’ così che La Grande Bellezza si misura non con l’esempio felliniano, che è troppo altisonante per poter essere imitato. Sorrentino di questo non ha alcun timore. L’immaginario italiano negli ultimi 30 anni non è cresciuto con Le notti di Cabiria, Giulietta Masina, Prova d’Orchestra, il Casanova di Sutherland, Mastroianni, Anita Ekberg e la Saraghigna. Quelli sono modelli che appartengono alla Storia, non all’immaginario.
L’immaginario italiano di oggi è fatto dalle pantomime di Benigni, De Sica, Boldi, Lino Banfi (forse il più sontuoso alfiere della “contro-commedia” all’italiana post-periodo d’oro), la commedia che descrive un’Italia senz’altro in crisi di identità, ma che è uscita da un pezzo dalla fase della ricostruzione degli anni ’50.
La nuova Italia dei Boldi, dei Greggio e di Moretti la crisi non l’ha mai vissuta sulla propria pelle, essendo figlia del berlusconismo, della crescita a tutti i costi, del benessere, delle televisivi, della pubblicità, della liberazione dei costumi e anche sessuali.
Per mettere in scena tutto questo ci voleva un grande Direttore d’Orchestra, che facesse un cinema che andasse a descrivere non il 1960, ma il 2013, per descrivere un periodo in cui tutte le ideologie si sono frantumate, perché passate ormai “in giudicato”. Finito il comunismo, con il berlusconismo al collasso ma mai certamente morto, ridotto a colabrodo il capitalismo, cosa resta ormai?
Sorrentino annega questa forma cinema della commedia all’italiana degli ultimi 30 anni, rinunciataria e incapace di produrre modelli validi che possano affrontare il mercato in maniera competitiva con una sfrontatezza, una sicurezza nei propri vandalici metodi di rappresentazione, con una forte respiro internazionale, con una cast che, messo in mano ad un altro regista italiano, non darebbe gli stessi straordinari risultati di continuo spiazzamento e di sorpresa (Isabella Ferrari fa una figura grama e comicissima), con una capacità di azzeramento dei modelli precostituiti dati da una forza cinematica che è evidentemente puro talento, quasi Sorrentino fosse uno spavaldo Tarantino italiano, che se ne frega di tutto e tutti e gira il suo film in assoluto sprezzo delle regole.
Questo viene in mente soprattutto oggi, con quanta fatica un giovane regista italiano si affaccia alle produzioni Rai-Mediaset e si vede promuovere solo film dove vengono glorificati gli inviolabili santuari della nuova Italia, che ha definitivamente svoltato verso un conservatorismo di estrema destra, ovvero Patria-Chiesa-Famiglia. Ecco Sorrentino da par suo non ha di questi problemi, essendo per altro riuscito nel miracolo di farsi finanziare un devastante opera-requisitoria su Andreotti, cosa che a 18 anni dal crollo della Prima Repubblica, nessuno aveva mai osato sfiorare con il pensiero, nemmeno Nanni Moretti, che poi girerà il film-travaso di bile contro Berlusconi con Il Caimano (2006), non sapendo (ancora) che è letteralmente impossibile fare un film su o contro il Cavaliere, essendo quest’ultimo un personaggio talmente banale e già di per sé televisivo, da non meritare un ritratto.
Molto più importante in questo senso sarebbe stato fare un film sul berlusconismo e sul “Berlusconi che è in me” come diceva Gaber. Forse Sorrentino con questo La Grande Bellezza ci è persino riuscito. Facendo un film rivoltante, ridondante, strillato, fastidiosissimo, anche disgustoso (quasi tutti i film di Ferreri erano parabole assolutamente acide e controverse), ma sempre comunque geniale, ad ogni scena. C’è poi chi ha detto che il film sia stato enormemente sforbiciato in sala di montaggio.
Quindi il film doveva essere più lungo. La Visione di Sorrentino, a quanto pare, non ha limiti, ma il mercato comunque glieli impone e da par suo deve comunque rimediare a questo fatto, tagliando e mettendo sempre quello che sta mostrando in prospettiva, attraverso una comunicazione sontuosa, torbida, pornografica, non allentando mai il timbro del grottesco, che è insito ovunque.
Dopo aver visto La Grande Bellezza ho ripensato al film meno fortunato di Sorrentino, il per certi versi detestabile L’amico di famiglia (2006), dove veniva raccontata la Sabaudia, un’Italia provinciale dove il conservatorismo rasentava l’idiozia più spinta. Là Sorrentino calcò la mano e si lasciò prendere dalla sua ansia di sorprendere, mescolando sacro e profano. Si può dire che quegli errori non li abbia ripetuti né su Il Divo né su La Grande Bellezza, che rimane qualcosa di assolutamente mitologico e fiabesco, dove la carovana di attori produce un senso di sfinimento continuo della camera sempre febbrile mai ferma.
Come il Tornatore de La Migliore Offerta questo Sorrentino de La Grande Bellezza punta ad un palcoscenico internazionale, rischiando, vincendo al botteghino, in maniera tale da potersi permettere una costosa sperimentazione che poi porti dei reali frutti davanti ad un mercato molto esigente all’estero ma soprattutto tremendamente volubile come quello italiano, i cui gusti sono difficili da intercettare.
Ma forse è una prova schiacciante che quando il film è fatto bene il pubblico risponde positivamente alla chiamata. Niente più “cinema parrocchiale” (Paolo Benvenuti, Giorgio Diritti) quindi, niente più invettive di estrema sinistra di un cinema povero che vanno sempre a vuoto (Ciprì e Maresco), ma un sontuoso raccapriccio sistemico oppure, come lessi anni fa in un libro che celebrava il centenario del cinema, in merito a La Grande Abbuffata (1973) di Marco Ferreri: “un cinema d’autore ricco che non si è mi potuto sviluppare”. Sorrentino sta facendo questo: cinema d’autore ricco. Forse qualcosa si muove nelle sabbie immobili del cinemino italiano.