Futurismo (L’inhumaine) di Marcel L’Herbier è un film del periodo muto (1924) che prometteva faville, dotato di un apparato visivo non comune e di un cast eccentrico. Le promesse dopo la visione sono mantenute, in virtù di una costruzione estetica artificiosa e di una narrazione macchinosa. Il primo grande fatto narrativo che dà un senso all’enigma barocco del film avviene dopo 100 minuti di ondivaghe prolissità visive. L’Herbier usa il montaggio eisensteiniano e lo stile futurista, di enorme fascino, per prolungare l’effetto illusorio portato avanti fin dall’iniziale scena dei giocolieri, ospiti della facoltosa protagonista, amante di geni artistici fuori dal comune. Come si diceva sopra, nell’ultima parte avviene il fatto clou, la scena madre dove il Marajah avvelena la protagonista con il serpente e nel finale lo spasimante, esperto in collegamenti a lunga distanza, deve salvarla attraverso procedimenti, messi in scena con grande sperpero visivo.
Questa esuberanza estetica concede una certa grazia ai movimenti degli attori, richiede pazienza allo spettatore, il quale viene catapultato dentro una sarabanda di meraviglie scenografiche, nelle quali la stessa fotografia vira dal rosso al verde al blu scuro secondo una partitura consona alle nuove edizioni restaurate del cinema muto.
Allo stesso tempo si evince una certa difficoltà narrativa, culminante nel finto suicidio dell’artista spasimante, che gli consente di ottenere completa attenzione da parte della protagonista altezzosa e, nella scena finale, altamente spettacolare del salvataggio di quest’ultima, una scena che ricorda il bacio di Trinity a Neo nel finale “tutto scintille” del primo Matrix. L’impronta estetica iper costruita di L’Herbier ha magistralmente camuffato gli inciampi narrativi, andando a creare un’illusione perenne di magia e di stupore, dove lo spettatore rimane invischiato fino alla fine.