Rivisto per la quarta volta nel giro di quasi due anni, dal momento della sua uscita nelle sale (gennaio 2008), la scorsa domenica, il 15 novembre 2009, Cloverfield si riconferma, sorprendentemente un film più bello che mai. Davvero una sorpresa. Mi aspettavo dei momenti di noia, sensazioni del tipo “l’ho già visto tre volte, un’altra volta non può farmi più nulla”. Cloverfield ha disatteso queste premesse, riconfermandosi come apologo non morale sul cinema catastrofico, ma come emblema nudo e crudo del catastrofismo.
Alla fine del film, quando stavano iniziando a scorrere i titoli di coda, ho letto sull’indicatore dei minuti, e ho visto che erano passati si e no 70′ di film. Quasi incredibile a dirsi per un film così “commerciale”, ma questi 70′ sono puro cinema, interpretato da volti di attori sconosciuti e completamente in linea con l’indipendenza ideologica di un progetto in progress il cui obiettivo è sperimentare nuovi elementi narrativo/drammatici in una struttura di genere. Senza fronzoli. Un impianto narrativo scarno, di una semplicità unica. La bellezza formale della “scrittura per immagini” digitale è tutta qui. J.J.Abrams e Matt Reeves hanno continuato il discorso critico sul digitale iniziato dal Michael Mann di Collateral e Nemico Pubblico. La forza intrinseca di un progetto come Cloverfield non si esaurisce nell’uso lisergico del digitale, ma è una cosa difficile da spiegare.
Cloverfield non è un gioiello di regia controllatissimo e sublimato ad arte come lo sono Non è un paese per vecchi dei Coen o Il Petroliere di Paul Thomas Anderson. Eppure risulta più bello dei due messi insieme. Io questa la chiamo, banalmente, la magia del cinema. Non pretendo di capirla. La storia conta anche moltissimo è vero. E’ J.J.Abrams che ha azzeccato in pieno un pezzo di cinema che rimarrà, a prescindere se si parli o meno di cinema di genere catastrofico.