Lo stile di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino ha generato mostri. Gomorra e Il Divo parlano lingue opposte e contraddicono tutto quello che i precedenti esempi di “mafia-movies” hanno mostrato. Questo perché l’anti rappresentatività oleografica di Garrone e Sorrentino si basa sul concetto polimorfo di “distanza inattuale”, il loro cinema dispiega l’immagine come ordigno primitivo, architetta una morsa tra l’immagine e la Storia in cui la seconda soccombe alla prima, così facendo il mutamento dell’immagine diventa cinema pulsante e catartico, rivolgendo il suo sguardo verso un punto cieco del cinema, in cui la visione smette di essere identificazione del Male contro il Bene (come succede in tutti i “mafia movies”) ma si riprende il primato dell’oggettività del mistero che insita da sempre nel cinema. Gomorra/Il Divo producono così un cinema dal montaggio cronometrico e irrazionale, conducendo lo sguardo ad una visione interna della narrazione. Vedere il Mostro e tentare di carpirne i segreti: questo è lo stile di Garrone e Sorrentino. Là dove Gomorra arriva stemperando ogni alone di romanticismo o di speranza su Scampia, costruendo la tela di un inferno mai sopito e mai scolpito, Il Divo marcia come un balletto diacronico seguendo la corrente democristiana come fosse una stimmate vivente. La complessità che manca ad altri “mafia-movies” si può rintracciare uniforme e cristallina in questi due film che si pongono come punto di non ritorno per un’estetica dell’oltraggio inteso nella sua accezione più politica (non centra niente quindi l’estetica dell’oltraggio esclusivamente formalista dell’universo lynchiano), segno di una necessità organica all’apparato del cinema italiano, bisognosa di una retorica post-televisiva che rimandi più ad un nichilismo ideologico di fondo (memore anche di opere quali In the mouth of madness, film definitivo sul senso della creazione/visione) che non ad un confortante messaggio che spieghi i perché e i percome.