La guerra in Iraq è un caos, un disastro di proprietà e contro-proprietà ellittiche da far venire il capogiro. Paul Greengrass lo sa e mette in scena proprio questo, il caos che regna eterno e rende la realtà sfuggente e molteplice. Matt Damon/Miller tenta di districarsi dall’insieme dei fatti, dal “bolo” della discontinuità informativa, delle incongruenze tra gli ordini impartiti e la realtà, ci prova e fallisce.
Greengrass invece vince la dove ne’ Brian De Palma ne’ la Kathryn Bigelow sono riusciti: descrivere il realismo con l’iperrealismo. Greengrass scava, non distoglie mai lo sguardo, sceglie un approccio diretto alla realtà e lo fa deflagrare contro i personaggi, De Palma e la Bigelow si limitavano ad anteporre l’autorialità al contenuto, De Palma giocava con la colonna sonora enfatizzando addirittura il significato delle immagini, la Bigelow eliminava del tutto il contesto politico girando quello che il Mereghetti ha definito un “Rambo in Iraq”, ha ragione ma il film è anche piuttosto divertente. Greengrass va da tutt’altra parte, pone i personaggi di fronte a soluzioni estreme, instaura il dubbio, fa emergere le contraddizioni del conflitto.
Sembra quasi di vedere un Michael Moore action, senza la pedagogia e il populismo del pur grande documentarista americano. Greengrass applica una regia spoliata e diretta, perfettamente friedikiniana, ad un grande film di denuncia che però rimane senza risposte, secco e preciso come un saggio di cinema impegnato e relativista. Grande Damon, dopo la performance entusiasmante di Invictus questa di Green zone è una conferma di grande prestanza scenica.