Quando il cinema di genere deve fare il suo dovere allo stato puro, non si va a chiedere a Snyder, Joss Whedon, J.J. Abrams, Jon Favreau, i fratelli Russo. Il discorso filmico in questo caso richiede una partecipazione di stampo classico tale da richiamare un contesto di altro genere, rispetto ai registi postmodernisti. In questo contesto il lavoro sul genere fatto da Steven Spielberg nel 2018 con Ready Player One resta di sorprendente duttilità estetica, intesa tra classicità e innovazione.
Ready Player One è un’opera capace di condensare la ansie e le terminologie ludiche, para-artistiche, e anche quelle pseudo intellettualoidi, in modo estremamente scarno, lucido, utilizzando la depsicologizzazione in modo catartico. Il film non è scritto da Spielberg stesso, e si sente, perché l’autore de Lo squalo (Jaws, 1975) da sempre è concentrato su una direzione degli attori secca e una costruzione spaziale delle scene che restano impresse in una matrice di campi lunghi e totali degni di un Blake Edwards o di un John Huston, o di un David Lean.
Il linguaggio di Ready Player One è naturalmente intriso di termini giovanilisti solitamente avversi al pubblico dei più maturi, difatti la loro prima impressione a riguardo, potrebbe essere di netto rifiuto, come è successo al sottoscritto, che ha avuto bisogno di una seconda visione per apprezzare al meglio tutti i dettagli di un’opera a matrice linguistico-visiva estremamente condensata di luoghi, spazi, caratteri, mondi anche opposti tra di loro, caratterizzata soprattutto da un ritmo mozzafiato.
Il cinema di Spielberg resta un universo visivo fondato sull’impeto epico dove la difesa dell’idea di progresso è dipesa dalla forza degli uomini, per abbattere le barriere dei despoti, in una dicotomia bene/male sempre dichiarata dal regista stesso.