Dark Shadows

Il vampiro Barnabas Collins si risveglia dopo un letargo durato secoli, dovrà vedersela con la sua vecchia nemica Angelique, che è diventata l'imprenditrice più ricca e potente del paese.
    Diretto da: Tim Burton
    Genere: fantasy
    Durata: 113'
    Con: Johnny Depp, Michelle Pfeiffer
    Paese: USA
    Anno: 2012
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Ci risiamo, con Dark Shadows il regista di Edward mani di forbice di nuovo alle prese con un prodotto su commissione. Stavolta si tratta della omonima serie tv degli anni ’60, che ha come protagonista il vampiro Barnabas Collins.

Ormai si può fare affermare che la brandizzazione del cinema di Tim Burton si fa sentire come un machete sull’intero progetto: nel profilmico, nelle scenografie, nei costumi, persino nei carrelli e nei piani fissi di Johnny Depp, vampiro aristocratico e démodé, che torna alla sua antica dimora dopo che la strega Angelique Bouchard (una torrida Eva Green, che cerca di mettere un pò di sangue e di eros nel cinema da sempre infantile e fumettistico di Burton) lo aveva trasformato in vampiro secoli prima.
Le storie non sono il forte di Burton, che preferisce la scenografia da grandguignol al cinema inteso come essenza del racconto e drammaturgia degli stati d’animo, di conseguenza Dark Shadows imposta da subito il pedale della farsa, del grottesco, del teatrino su misura per un pubblico devoto al suo maestro.
In fondo non c’è nulla di male, forse, ad ostentare un marchio di fabbrica, a voler di nuovo chiedere il giudizio del pubblico su un argomento estetico che l’interlocutore conosce a menadito.
Allora perché Dark Shadows ha quest’aria così stantìa e vuota, luccicante di un vuoto kitsch che riempie le falle narrative come a voler impreziosire un quadro ridipinto per la quindicesima volta? Stavolta la struttura di Dark Shadows pare molto simile a quella de Il Pianeta delle scimmie, riconosciuto da tutti come l’unico, vero passo falso del regista di Burbank. Dopo il miliardo e passa incassato da Alice in Wonderland (Burton ha lavorato per 15 anni alternando prodotti su commissione e film personali, ma mai aveva raggiunto l’exploit al botteghino in maniera così repentina), con Dark Shadows approda ad una strutturazione del racconto che pare far a meno dei suoi personaggi, e il suo cinema diventa autonomo e primario rispetto a logiche di drammaturgia e di necessità narrative.
Guardando Dark Shadows si può parlare di un vero e proprio trionfo dello scenografismo teorico, una serie di tableux vivant che scorrono davanti agli occhi come un elegìa del tempo perduto, puro romanticismo malinconico e inevitabilmente deja-vu, ma con un tocco sulfureo della miglior (o peggior, a seconda dei gusti) cultura punk.
Burton è sempre stato un ragazzo fuori dal coro, l’inventore di una wonderland hollywoodiana che Hollywood ha sempre guardato con curiosità e rispetto, dandogli di fatto, anche la possibilità nel 1994, di girare quel costoso (per l’epoca) flop commerciale, che era il film in b/n su Ed Wood, dove il regista peggiore del mondo veniva celebrato con una messa funerea e delicata, che fece gridare a molti al miracolo, ed è ancora oggi considerato un capolavoro di poesia mai più raggiunto dal regista, forse lo si può avvicinare per coerenza e parvenza estetica solo a Big Fish (2003).
Del resto, ormai Burton è sempre stato un artista dark double face, capace di passare da Beetlejuice a i due Batman con in mezzo tra i due colossi produttivi un piccolo film come Edward mani di forbice (diventato l’emblema assoluto del suo cinema favoleggiante la freakitudine e la poesia del diverso), oppure dal remake Charlie and the chocolate factory (altissimo esempio di cinema-macchina, costruito alla perfezione) alla produzione europea de La Sposa cadavere (straordinario esempio di animazione a passo uno, ma cento volte meno emozionante di Nightmare Before Christmas), fino ad arrivare a quello che pare essere il suo risultato più ardito ed entusiasmante, Sweeney Todd Il diabolico barbiere di Fleet Street, una elegìa funebre tardo-romantica, che eleva la figura del barbiere Todd ad esegeta amorale di una dissoluzione dell’immortalità dell’immagine-ricordo, un vetusto, arcaico monumento alla irreversibilità del cinema, alla sua incontrovertibile aura primigenia, capace di generare senso dalla morte stessa del suo cinema.
In Dark Shadows questa estetica manca almeno in parte, forse per un mancato raccordo tra script e messa in scena, per una discussione interna al modo di fare cinema che non rimpiange più l’età perduta dell’innocenza (che in Sweeney Todd era molto forte), o forse per una certa sciatteria produttiva atta a consegnare il prodotto al pubblico del multiplex (la scena finale della battaglia tra creature mostra tutta l’inadeguatezza al supporto digitale di Burton, fatto anche piuttosto strano, perché in Alice in Wonderland il gioco sul godimento del percettivo digitale funzionava a dovere, anche a scapito di una certa irritazione visiva del kitsch che ci poteva anche stare), cui Burton si rassegna quasi accettando un compromesso cui non può liberarsi, se non tentando di introdurre il suo sguardo obliquo su scene d’azione che probabilmente detesta.
Il Dark Shadows burtoniano si conclude così, con un bacio finale che chiude in una spirale geometrica il film, ricomponendo il mosaico, così come era iniziato, con un nulla di fatto, con un cinema fracassone, inventivo, geniale forse per noia produttiva o forse per un calcolo deciso a monte, e che, comunque, dimostra il rifiuto categorico del regista di Burbank di avvicinarsi alle estetiche dei Twilight e degli Harry Potter di turno. Sembra poco, ma forse e solo un abbaglio del cinéfile spettrale che si nasconde nel suo cuore malinconico e ormai del tutto digitalizzato, in attesa che qualcuno lo rivaluti in un futuro non troppo lontano.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).