La clonazione di Steven Spielberg porta il nome di James Mangold, il responsabile della macelleria di Logan (2017). Chissà se quella di Spielberg è una pausa o piuttosto un divorzio, per adesso vedendo Indiana Jones e il Quadrante del Destino a ogni scena si cerca la presenza del filmmaker de Lo squalo e Jurassic Park. Si cercano le tracce, a ogni angolo, dell’orchestrazione, dei tagli d’inquadratura inattesi di un regista che è stato il più potente mediatore nel rapporto tra arte e capitalismo a Hollywood. Già Lynch con Dune (1983) aveva dimostrato inequivocabilmente che Arte allo stato puro e Box Office non vanno a nozze. Con Spielberg le cose sono andate diversamente, in quanto il regista de I predatori dell’arca perduta non è mai stato un artista, bensì un creatore d’immagini, un eccellente gestore dei giocattoli e dei set messi a disposizione delle major.
Mangold, il grande intruso in questo gioco più grande di lui, s’inserisce presentandosi come clone del maestro (scritto tra virgolette). La clonazione è stata rischiosa e il sottoscritto cerca a più riprese una traccia, una prova del calco tra le due menti. Vedendo il quinto capitolo di Indiana Jones sembra quasi che Spielberg e Mangold si siano fusi, andando a creare un ibrido indistinguibile, soprattutto nel lungo prologo, girato sempre con ambio uso di effetti speciali. Si viene subito ingannati dal ringiovanimento finto e vagamente risibile di Harrison Ford, ancora più risibile nella scena della corsa sopra il treno in velocità.
Entrando nella trama lo svolgimento è simile ai capitoli precedenti: c’è una scena di inseguimento tra auto in Marocco troppo lunga che pare un calco a quella de I predatori dell’arca perduta. Ed è qui che si inizia a sospettare che Mangold sappia fare bene solo una cosa: ricopiare benissimo scene inventate da altri. C’è anche una notevole scena subacquea, decisamente realistica, tanto da far sembrare più finto che mai il mare di Avatar – La via dell’acqua, nel film di Cameron la natura marina non ha nulla di ostile, difatti secondo l’ideologia ambientalista la natura è amica e non vi è differenza con la sfera umana. Invece nel film di Mangold la natura resta un luogo misterioso e altamente problematico per l’uomo, altrimenti non ci sarebbe alcuna suspence.
Mai in un film di Indiana Jones c’era stato il bisogno di ambientare scene sott’acqua. La suddetta scena fa parte di un dittico di due scene madri che configurano l’operazione al centro di tutto il film: due gruppi di avventurieri, uno capitanato da Indiana Jones e dalla sua figlioccia (interpretata dalla spigolosa Phoebe Waller-Bridge), mentre l’altro è capitanato dal professore ex- nazista naturalizzato americano (interpretato da Mads Mikkelsen, con la solita precisione e puntualità), cercano il quadrante del destino inventato da Archimede. Questa straordinaria invenzione dei tempi antichi dà la possibilità di viaggiare nel tempo. Il quadrante è stato diviso in due pezzi dallo stesso Archimede, così questa soluzione narrativa crea i presupposti per una impostazione di due set, così il film si articola (troppo) in 154 minuti. Due ore e trentaquattro minuti, è il primo Indiana Jones dotato di una durata tanto spropositata. L’ultimo capitolo datato 2008 era riuscito a non andare oltre le due ore.
L’ultima annotazione riguarda la fotografia. Non si tratta di una cosa di poco conto. il quarto Indiana Jones era stato firmato dal fidato collaboratore Janusz Kaminski, con i suoi volumi pieni e i cromatismi terrosi, ferini. La clonazione di Kaminski prende il nome di Phedon Papamichael, che tenta di ridare questo impasto reale materico e magico. Ci riesce solo in parte. Spielberg e Kaminski dovrebbero ripensarci.