Parasite stravince ai punti, senza neanche prendersi troppo la briga di convincere. Il sudcoreano Bong Joon-ho aveva già ampiamente convinto con due indimenticabili film: The Host (2006) e Snowpiercer (2013). Due film di genere che erano soprattutto opere, dove la quadratura del cerchio avveniva a 360°, due bolidi di immensa fattura estetica, una concezione del cinema di genere che la Hollywood mainstream non sa più proporre. Peraltro Snowpiercer era un prodotto che nasceva da una coproduzione hollywoodiana, senza mai accomodarsi sulle regole stantie dei vari Gangs of New York, Spider-Man, Kill Bill, V for Vendetta, Femme fatale, e mediocrità simili.
Questo per dire che Parasite sembra quasi uno sfizio per Bong. Una piccola commedia grottesca, perfettamente calibrata, dove il regista inserisce elementi di articolazione visiva e contenutistica a incastro, con una sapienza e una maestria da vero genietto. Ma con tutta tranquillità di uno stile sobrio e sicuro.
Bong del suo cinema ha davvero tutto sotto controllo. Non gli serve strafare, sottolineare le emozioni, gli scarti, le deviazioni. Gli riesce tutto facile, perché per lui il cinema è un gioco di moltiplicazione degli sguardi, un gesto di ribellione fatto col fioretto, un’epidemia perfettamente controllata. Bong non calca mai la mano nell’esporre il suo stile sulla scena. Sa dare tempo ai ritmi comici, sa prendere la filosofia applicata al cinema e rivoltarla. Per questo Parasite è il film che sconvolge, rivela, fa ridere a crepa pelle, fa male e commuove senza darlo troppo a vedere.
Nel Concorso di Cannes 2019, avendo avanti avversari come Almodovar, Tarantino, Bellocchio e Jarmusch, Bong con Parasite vinceva a man bassa, schiaffeggiava i vecchietti ammuffiti con enorme nonchalance. Il suo è uno sguardo piano ed ermeticamente centripeto, che si misura con le miserie umane rivoltandole dal di dentro. “Non fare mai piani, tanto sai che andranno sempre a rotoli”, dice il padre Kang-ho Song (attore feticcio del cinema di Bong) al figlio Woo-sik Choi. Bong costruisce i piani con la risolutezza dell’architetto esteta, che conosce la presa in giro come arma per ribadire uno stato sociale stratificato e conteso.