Sarebbe ora che Albert Serra smettesse di farsi finanziare i film da produttori francesi e tornasse in Catalogna. Il suo cinema ne risulterebbe rivitalizzato. Finora l’esperienza transalpina per l’autore di El cant del ocells è anodina e non del tutto negativa, diciamo che se l’è cavata. Tra La mort de Louis XIV e Liberté ci sono pochi punti di contatto. Il primo è un film sull’attesa della morte, il secondo è una strana opera sperimentale, piena di oscenità e di un senso dell’attesa quasi messianico.
In Liberté Serra riversa sullo spettatore una impressionante quantità di oscenità e di sgradevolezze, ma la visione del film non resta ostica. Dello sguardo di Serra ci si può fidare, non ci sono sotterfugi, non vi è alcuna furbizia in merito, e neanche si assiste ad un piacere patinato e gonfio di superfici lucenti. Il lavoro sulla fotografia notturna e l’intero lavoro della camera e del comparto visivo concorrono a creare un’atmosfera di torbida dolcezza.
Le perversioni sessuali vengono prese nel loro significato etimologico e ogni esperienza di degradazione viene rappresentata come un coito di grande raffinatezza e pregnanza filosofica. Non vi è alcuna patina né di furbizia, né di scandalo. Di conseguenza, non siamo dalle parti né del Salò pasoliniano né di Lars von Trier, né del Climax di Gaspar Noé, tutti autori che slittano tra il pedagogico e i moralistico. Serra si tiene a distanza tutti. Di fatti Liberté non ha creato alcuno scandalo nei media, quasi nessuno ne ha parlato, pochi lo hanno visto. Eppure la qualità parla da sé. Il risultato è una visione di grande lucidità, immersa in un formalismo che crede fortemente nella prospettiva delle figure e dei corpi.