Le verità il primo film francese di Hirokazu Kore-eda. Era inevitabile dopo la Palma d’Oro di Manbiki kazoku (Un affare di famiglia, 2018). I francesi non se lo sono lasciati sfuggire un simile talento. E lo hanno francesizzato subito. Ma Kore-eda è uno scrittore scenico sensibile, attento, abituato a tastare con tatto la materia nobile delle immagini. E la traduzione in francese degli interni borghesi giapponesi si rivela un incanto.
Quando Kore-eda gestisce una scena, inquadra, impagina le sequenze con la maestria di chi segue una logica di appuntamenti ricorrenti, con l’emozione primaria dei rapporti, all’interno del nucleo familiare che è oggetto del suo studio. Catherine Deneuve e Juliette Binoche si trovano in un incontro scontro che sa di competizione infinita e indefinita. Si conoscono ma forse non si sono mai capite veramente.
Si pensa che i registi francesi un cinema così, forse, non lo sanno più fare. Kore-eda ha studiato alla scuola di Eric Rohmer: cinema scritto con sapienza spartana, lampante, quadrangolare e nettamente in surplus interno di idee, quel che non si vede è celato solo in apparenza. Kore-eda sa ammaliare con poco, rispetta i suoi personaggi e li fa evolvere verso un’alternativa di visione. Non più solo chiacchiera scenica, ma danza degli sguardi.
Era un banco di prova importante per Kore-eda, rischiava di fare la fine di Farhadi, il cui Il Passato (2013) era una fotocopia venuta male di Una separazione (2011). Fare cinema francese senza francesizzarsi, ottenendo dal progetto una connessione diretta al suo cinema precedente, fare grande cinema d’interni senza l’ansia di dover a tutti i costi dimostrare qualcosa.