Un film come Ema è quello che accade a Pablo Larrain quando gli si toglie la politica. Dopo cinque film dove la politica, soprattutto intesa come memoria storica, aveva un ruolo centrale, Ema è il primo basato su una visione concreto e universale di materialismo calato nella realtà contemporanea del Cile di oggi. Vorticoso, latente, calmo, come il volto di Mariana Di Girolamo, giovane attrice dallo sguardo impassibile e sereno, pur covando insoddisfazioni perenni e senza via di scampo.
A coadiuvare il lavoro di messa a fuoco del turbinio vitalissimo della protagonista, il fedele direttore della fotografia, Sergio Armstrong, cela il suo alto livello cromatico e panoramico in ogni scena. Ema rimane un’opera insondabile e ondivaga, sempre in perenne ascesa e decadimento estetico. Larrain filma il vuoto e lo cerca nei campi lunghi, punta gli sguardi dandogli una legittimità intrinseca sullo sfondo, si intromette nelle scene private come un segugio.
Il suo punto di vista rimane polemico e il suo desiderio di provocare mai domo. Mariana Di Girolamo è un miracolo di casting, mentre Gael Garcia Bernal deve faticare molto per non essere alla pari. Il personaggio di Ema è tagliato sulla Di Girolamo con la furia dello scalpello. Tutto ciò che interessa a Larrain è misurare lo spazio urbano di una crisi dei rapporti interpersonali. Ema viaggia verso le rotte incandescenti, tipiche degli amanti che si divorano a per di fiato come tigri senza fissa dimora.
Eppure alla fine bisogna sempre trarre un senso dalle immagini create. Quello del film di Larrain sembra un ritratto di femminilità, riempito da un vorace appetito per il solco vorticoso di un uragano ripreso dall’interno. Un’opera silenziosa, faticosa, ossessiva, armonica, deviante.