Attenzione: il testo che segue contiene rivelazioni importanti sulla trama.
Era difficile ripetere un piccolo miracolo come Civiltà perduta (The City of Lost Z, 2016), per un buon filmmaker come James Gray. Con Ad Astra il regista de I padroni della notte e Two Lovers firma il suo primo film di fantascienza. Alla fine si resta inebriati dalla costruzione aulica, di altissimo livello, ma il sunto dell’operazione rimane a metà, una space opera non conclusa. Non ci sono spiegazioni di sorta, anche se non ce ne sarebbe neanche bisogno visto che le immagini dovrebbero parlare da sole; mentre alcuni personaggi come quello della moglie e altri collaterali rimangono appena abbozzati.
Gray ha avuto una certa fratta nel costruire la suspence. Molte intuizioni si perdono: è un fatto di composizione, di gestione scenica far si che i singoli episodi non rimangano frammenti a sé stanti, ma diventino parte di una sinfonia ben calibrata, dove i vuoti si riempiano con i pieni. A Gray questo lavoro riesce fino ad un certo punto. Anche Civiltà perduta era un viaggio irrisolto nell’enigma della possibilità umane, Ad Astra invece si affida molto alle voci off per rimarcare le psicologie dei personaggi. Brad Pitt quasi sconsolato ed emaciato, fa il suo lavoro da bravo soldato dello spazio senza battere ciglio. Quello di Tommy Lee Jones rimane un personaggio totalmente in balia delle sue ossessioni di ricercatore fallito.
Il viaggio nello spazio in Ad Astra si auto rappresenta come l’ultima frontiera della paura, ci si perde nel cosmo immenso, si avvince una sorta di limbo visivo, che si perde nello sceneggiato della disputa antica tra padre e figlio. Il figlio alla fine perde il padre senza rimanerne sconvolto. Il suo viaggio è stato lunghissimo ma sullo schermo sembra che siano passati pochi attimi. Questa indifferenza verso i tempi storici/scenici era presente anche su Civiltà perduta, ma con un maggior senso del mistero, e con molto meno distacco emotivo.