Sin dalle prime immagini Roma rivela il punto di vista di Alfonso Cuaron: l’esigenza di muovere la camera con movimenti sinuosi e precisi è data dal moto del ricordo e quindi da una minuziosa scrittura delle immagini e sulle immagini. Ecco, Cuaron ha bisogno di scrivere con la cinepresa, in Roma lo fa in modo conciso, con un b/n pulito, ben curato, con uno script capace di inventarsi grandi trovate e con una regia diligente, quasi compilativa. Tutti i tecnicismi che avevano fatto la gloria di Gravity e ne avevano anche rivelato la freddezza e l’astuzia, si ripetono in modo ancora più elegante in Roma. Cuaron conosce bene le regole fondamentali della regia cinematografica e le applica, senza inventare nulla. Il suo cinema seduce per quello che dichiarano i suoi movimenti di camera, attraverso una circospezione visiva ragionata e accademica. L’arte ripresa nel suo farsi. Senza reinventare le regole, rompere il ritmo, scardinare il pathos per rifondarlo ancora più potente (vedere lo straordinario Tesnota di Balagov), Cuaron restituisce la regia così come l’ha imparata.
C’è poi la questione dell’uso del digitale. La piattezza e la freddezza del digitale in Roma si sentono, eccome. Per quanto mi riguarda l’emozione su grande schermo ha latitato davanti ad uno spettacolo perfettamente studiato e, per certi versi, visivamente compresso, come in una lastra bianca dove le figure si muovono piatte e uniformi. Ci sono poi alcuni momenti di grande potenza visiva dove Cuaron tenta, genialmente e disperatamente, di forzare la piattezza dell’immagine digitale, come nella bellissima sequenza del piano fisso sulle luci intorno agli alberi durante il party, sullo sfondo in alto si vedono alcuni lampi di luce che paiono una tenue foschia, per poi rivelarsi come l’inizio di un incendio. In questa scena Cuaron dà sfoggio di grande intelligenza e acutezza di sceneggiatura, anche se il lampo dura un attimo, perché il digitale non offre quella profondità di campo di cui ci sarebbe stato bisogno (Il filo nascosto di P. T. Anderson è un esempio di come i fondali siano caratterizzati da colori saturi e carichi si emozione).
Un’altra sequenza che si distingue per il modo in cui Cuaron vede, sente e registra la scena è quella in cui dalle finestre del negozio d’abbigliamento si vede la rivolta, un minaccioso conglomerato di giovani armati che dà battaglia nelle strade. In seguito la scena si sposta all’interno del negozio e sopraggiunge subito un soffocamento della tensione dovuta alla piattezza dell’immagine digitale. Roma è una sinuosa operazione di talento e di tecnica, ma è anche un film dove il regista mostra la sua carta d’identità di autore che fa del ragionamento la sua principale arma di seduzione, dove ogni angolatura è calcolata. Altri grandi autori come Lav Diaz, Bruno Dumont, Lisandro Alonso, Miguel Gomes, Albert Serra non hanno bisogno di dimostrare le proprie credenziali attraverso movimenti di camera iper studiati, le loro immagini sono talmente potenti che il discorso da loro impostato rimane nudo e autentico. L’aristocrazia visiva di Cuaron è fatta per sedurre uno spettatore che resta ammaliato da movimenti di camera fatti apposta per incantare e sedurre, ma il movimento interno all’immagine, il lavoro con gli attori, i conflitti insanabili, il montaggio ellittico, significante e non dimostrativo, sono tutte cose che mancano.