Un segno dei tempi, una minaccia contro la sacralità della sala, un’ alternativa alle regole del mercato. Per adesso non ci sono risposte, solo dubbi, dibattiti, una soluzione da trovare al più presto e che per ora non si intravede all’orizzonte. Questo il fatto: l’ultimo grande film di Orson Welles, L’altra faccia del vento (The Other Side of the Wind) è stato distribuito da Netflix per il piccolo schermo e reso disponibile su internet, ma è stato proiettato per il grande schermo al Lido di Venezia. Perché questa riluttanza verso la grande distribuzione? Forse perché il cinema di oggi ha subito una sorte di occupazione militare da parte di pochi brand cinematografici? E’ sempre stato così, fin dall’alba dei tempi. Ma ora le cose cambiano in modo, come al solito, imprevedibile.
La domanda è la seguente: ci si può accontentare del piccolo schermo per la visione di un così importante progetto? Sul grande schermo si sono imposti Animali fantastici – I crimini di Greenwald e Orson Welles lo si guarda sul piccolo schermo casalingo. C’è in questo una dicotomia piuttosto evidente e marcata, come a voler perimetrare una distanza quasi ideologica tra i due modi di pensare e fare cinema. Davvero oggi il regno dell’autorialismo più sperimentale si riduce al piccolo? La lista dei registi che si cimentano con il piccolo schermo si allarga, dai fratelli Coen a Martin Scorsese (fino all’invisibile mini serie di Dumont P’tit Quinquin e Coincoin coincoin et les z’inhumains), fino al film vincitore del Leone d’Oro 2018, Roma di Cuaron. Dunque con Netflix c’è una maggiore possibilità di far circolare questi film. La piattaforma si apre alla possibilità di visione senza confini, andando oltre il limite del grande schermo. Eppure questa spiegazione non convince affatto chi è sempre stato abituato a vedere Welles al cinema, al buio di una sala di proiezione, con una colonna audio isolata dal resto di qualsiasi altra fonte di rumore o suono, cosa impossibile in una visione domestica.
Nel caso del film di Welles si tratta certamente di un’opera singolare, per certi versi unica, nel panorama cinematografico odierno. L’altra faccia del vento è stato presentato non al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, ma Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Filip Jan Rymsza e Peter Bogdanovich, attore protagonista del film, hanno messo mano alle oltre mille bobine del film incompiuto di Welles e, lavorando su duecento ore di girato, hanno ridato vita alle due ore di cinema che erano rimaste nascoste per 42 anni.
Quello che ci si trova davanti è un corpus visivo magmatico e frastagliato, caratterizzato da un utilizzo dl montaggio quasi frenetico, tendente al continuo cambio del punto di vista, acquistando una velocità quasi psichedelica . Un esempio di cinema meravigliosamente infantile, sperimentale, giocoso, mai domo. La visione inimitabile di Welles viene ricollocata temporalmente in uno spettacolo postumo, andando a creare un qualcosa di nuovo, dove l’autore stesso aleggia come un fantasma irrequieto.
Un cinema così apertamente sbalzato dal tempo e nel tempo produce un certo piacere della scoperta. Lo spettatore si trova davanti all’immaterialità del corpo-cinema wellesiano, con occhi strabuzzanti e sbalorditi per un lavoro che sembra non avere inizio e fine. Le tonalità dell’immagine su cui Welles ha lavorato sono tendenti ad un croma piuttosto basso, dove prevalgono i contrasti scuri e le ombre, il terreno dove Oja Kodar passeggia nuda rimane di un giallo polveroso più vicino allo stato onirico che ad una qualsivoglia rappresentazione realistica del paesaggio.
L’altra faccia del vento parla di un regista che sta lavorando ad un film commerciale, ma non è un film sul cinema, non c’è alcun accento sulla difficoltà dell’autore di rimanere se stesso all’interno del sistema Hollywood, la pratica divinatoria applicata da Welles al suo cinema esclude categoricamente la pedanteria. Welles crea per il puro piacere di creare e la sua ultima opera è un canto adombrato su un cinema che non esiste più e che ha preso forma solo in quest’epoca di morte annunciata e disattesa del cinema, in una consuetudine frutto di un imprevedibile calcolo del destino.