Spike Lee torna sul luogo del delitto. Gli Stati Uniti sono cambiati dai tempi di Fà la cosa giusta (Do The Right Thing, 1989), dopo l’era Obama la questione razziale si è riaccesa con episodi che ricordano gli ’70, il periodo dell’amministrazione Nixon. In un contesto così mutato come si può definire il rapporto tra cinema e lotta politica, soprattutto dopo la lezione del contro-cinema d’inchiesta data dall’incendiario Michael Moore, grande fomentatore, agit-prop, scarsissimo cineasta niente affatto dotato di senso della prospettiva e della distanza? Per fortuna in questi tempi c’è stato anche l’esempio di cinema improntato sulla critica sociale più eretica e fuori dagli schermi, quel Get Out di Jordan Peele che ha dimostrato che anche nel campo minato della dialettica eterna White Supremacy/Black Power si può inserire uno sguardo nitido feroce, persino disinvolto, che guarda sibillino ai fatti più abominevoli. Get Out stava lì a dire che l’afroamericano nell’America bianca non avra mai la possibilità di vincere, al massimo di sopravvivere. E l’era Obama ha dato solo illusioni di un mondo che non è mai esistito.
Spike Lee arriva al momento giusto per la sua filippica. Mai così violenta. Fa la cosa giusta era e resta un potentissimo film sulla fandonia dell’integrazione e del multiculturalismo, 19 anni prima di Gran Torino, ma era basato su una scrittura e una regia raffinatissime e rarefatte. Il calco registico, la mdp non si sentivano per niente. C’era aria di grande cinema. Con Blackkklansman Lee toglie gli ormeggi e si scontra in modo aperto, frontale, con l’America dell’odio, ponendo il termine di paragone tra la situazione di ieri, gli anni ’70 e quella di oggi, con gli scontri di Charlottesville e le manifestazioni della White Supremacy del 2017.
Con Donald Trump l’America bianca ha ripreso il potere e Spike Lee prova a dare un senso estremamente negativo alla situazione in concorso. E cosa fa? Calca la mano, in modo devastante. Risultato? La scrittura è talmente densa da rendere la regia molle, imperturbabile. Quando avvengono le svolte nello script quasi non si sentono. La prima parte funziona meglio, con il poliziotto di colore che tenta di farsi strada, ma non appena Lee ci mostra il gruppo dell’Organizzazione, il modo in cui si fa chiamare il Klu Klux Klan, il tentativo di deformazione grottesca prende la mano e il calco della parodia dell’America razzista mostra subito le corde. Da lì sarà tutto un susseguirsi di episodi sulla ottusità dei neo nazisti americani degli anni ’70.
Le battute sul negazionismo ormai fanno parte della Storia, Lee riprende questi vergognosi atti di ignoranza e d’intolleranza con la finta pervicacia di chi pensa che certe insulsaggini non si siano mai sentite prima. Cosa vuol dimostrare? Che l’intelletto dell’America di provincia è rimasto al medioevo? Che questa gente non ha via di scampo dalla propria inettitudine morale? Spike Lee si adagia sulla denuncia prendendo a pugni il trumpismo che, secondo lui, si associa direttamente all’ideologia neo-nazista.
La messa in scena gli riesce molto meglio nella scena in cui Harry Belafonte ricorda, davanti alla platea delle Black Panther, il linciaggio di John Washington, forse la scena migliore del film. Senza alcuna retorica, il piano dialettico tra la mite performance di Belafonte, che ricorda con dolore trattenuto dall’esperienza, i dettagli più raccapriccianti, e le reazioni devastate dei giovani che non conoscevano simili atrocità, porta alla luce una delle più nere pagine della recente Storia americana e fa rabbrividire: è qui che entra in gioco il piano strutturale del film. Le scene con Adam Driver servono a stemperare nell’ironia un congegno narrativo precario, inscritto su un contesto storico/ideologico rovente. La storia del poliziotto di colore che si infiltra nel Klu Klux Klan sa di sberleffo e di decostruzione cognitiva degli elementi narrativi e ideologici.
Spike Lee raggiunge il livello della disputa tra White Supremacy e Black Power fino ad un certo punto, quello dell’ironia marcata a fuoco nell’indignazione. Questo per dire che la vera anima degli Stati Uniti resta un mistero inconoscibile. Rimanere lucidi in questo contesto di belve è un’impresa. Spike Lee ha raggiunto il suo obiettivo solo a metà, anche se il suo film rimane densissimo. Le immagini prese da The Birth of a Nation di David Wark Griffith e il finale, di un impatto emotivo tale da mettere il dubbio di essere dalle parti di un film di Michael Moore, stanno lì a precisare ciò che Lee non è riuscito a dire con le immagini del suo film. La realtà è altrove, una situazione storica che pare senza via d’uscita.