Il cinema di Ridley Scott è sempre stato caratterizzato da un rapporto di conflittualità ambigua con il capitalismo, in Blade Runner, Black Rain e American Gangster soprattutto, ma anche Il genio della truffa, commedia sulla difficoltà di sintetizzare, assimilare, riprodurre gli anni ’00. Tutti i soldi del mondo spinge ancora più in là questa necessità dialettica. L’impero capitalistico concepito dal magnate Getty è una gigantesca architettura con la testa di Medusa, i cui tentacoli riescono ad arrivare ovunque. Il potere acquisito dal denaro e dalla capacità manageriale di Getty ammalia, seduce, disorienta, sconcerta chiunque ne venga toccato.
Negli anni ’70 l’Italia è presa nella morsa degli anni di piombo, della strategia della tensione, degli intrighi, dei faccendieri e delle bombe. I rapimenti di persona era cosa comune. In questo contesto la freddezza con cui il miliardario Getty (definito l’uomo più ricco della storia dl mondo) prende la decisione di non intervenire subito nel pagamento del riscatto per il rapimento di suo nipote è segno di una grande freddezza e di una capacità di mantenere i nervi saldi davanti a circostanze difficili. Qual’è il prezzo del denaro? Si può dare un prezzo ad un essere umano? Secondo Getty sì. L’intera vicenda viene ricostruita da Scott con grande tempismo, davvero non si ha mai la sensazione che gli elementi in gioco sfuggano dalle mani del regista-burattinaio. Christopher Plummer e Michelle Williams sono qui al meglio. La tensione s’inalbera senza compromessi e la struttura cardine del cinema-monolite scottiano torna superando ogni convenzione di genere.
Il punto focale di un qualsiasi centro narrativo in Tutti i soldi del mondo sembra venire come sfrangiato, com se la stessa dimensione narrativa dovesse in qualche modo perdersi, per lasciare che misteriosi anfratti tematico-estetici debbano prendere corpo, così l’ultima scorribanda storica del regista sembra un lavoro sul tempo e contro il tempo, generando un effetto di vero/falso che distolga quasi l’attenzione sui fatti principali. I personaggi a volte paiono perdersi nel groviglio della storia e delle storie, Scott intreccia una trama dai risvolti altamente drammatici, dove pare non ci siano più vie d’uscita.
Scott sa dove imprimere i giusti passaggi di tono, rovista le coscienze e modella un quadro visivo di grande suggestione. Senza accenti polemici o supponenza autorialista, ricostruisce in modo saldo, perdendo alcune tracce della sua proverbiale stilizzazione visiva, lasciando che l’emozione s’attardi senza toni grevi. Dopo aver girato ben tre film di fantascienza (Prometheus, The Martian, Alien: Covenant e la parentesi alla De Mille di Exodus), il ritorno di Scott ad un cinema d’ambienti realistici ha un effetto di stridore piuttosto interessante e fecondo. D’altronde ha sempre lavorato così: una continua sperimentazione, Senza mai accentuare i toni di un cinema romanzato. ma sempre tenendo ferma l’attenzione sugli spazi, sulle immagini, sull’organizzazione del set, sugli attori, che sono sempre stati i grandi autori del suo cinema. L’uomo messo a nudo davanti alle sue contraddizioni.