La cura Coen rivitalizza anche George Clooney. Dopo aver messo mano allo script de Il ponte delle spie di Steven Spielberg, i fratelli terribili del cinema americano indipendente s’inseriscono nella traiettoria dell’autore di Good Night and Good Luck, impostando un film come Suburbicon – Dove tutto è come sembra, come risposta, a tutti gli effetti, in salsa comedy a Scappa – Get Out di Jordan Peele, vero e proprio exploit della stagione cinematografica 2016-2017, cult istantaneo, sublime crocevia di tutte le estetiche politiche degli anni a venire. Con Get Out e Suburbicon Hollywood entra ufficialmente nell’era Trump. Il razzismo viene messo in scena come raramente si era visto nei decenni precedenti. Neanche Fa la cosa giusta di Spike Lee (1989) e Gran Torino di Clint Eastwood (2008) avevano espresso in modo tanto repentino e feroce la mentalità della White supremacy.
Suburbicon si muove tra due linee narrative, una delle quali fa da depistaggio per l’altra. La prima è la questione razziale: a Suburbicon la famiglia afroamericana non è ben vista dal quartiere, le manifestazioni di intolleranza sono all’ordine del giorno; la seconda è di natura noir, un padre di famiglia organizza un piano per eliminare la moglie e fuggire con la cognata. In questo secondo caso siamo dalle parti di Fargo (1996), il film che consacrò in modo definitivo la stella dei fratelli Coen negli anni ’90. Ma a distanza di vent’anni cambiano definizione dei caratteri, registro, tono, modalità di rappresentazione. Clooney beneficia di una sceneggiatura ricca di colpi di scena, ma tiene sempre il pedale fermo sulla critica sociale, persino su un certo impegno civile, tendendo in alcuni casi alla macchietta, con una leggerezza che si vedeva, in modo però molto più accentuato in The Monuments Men (2014).
In Fargo i Coen diedero un’impronta molto più cristallina e severa all’intreccio noir, mettendo sempre in prospettiva i caratteri dei personaggi, lasciando l’orrore silenzioso quasi a sfondo di una vicenda banalmente assurda. Clooney rende la vicenda certamente più tragica, premendo il pedale sull’ironia insolente, ma con un certo garbo, senza mai appesantire i caratteri. La doppia Julianne Moore è esilarante, la fotografia di Robert Elswit accentua i chiaroscuri e deforma le linee, in modo tale da lasciare i colori densi e pastosi, come nel cinema di Paul Thomas Anderson. Probabilmente il film avrà pochi estimatori, il tono amaro innestato in una logica anti-establishment potrebbe fuorviare e lasciar pensare ad una resa dei conti anti-Trump, ma sotto l’indignazione c’è molto di più.