Doveva essere la consacrazione, lo zenith registico di J. C. Chandor, A Most Violent Year. Invece ci si trova tra le mani un prodotto ibrido, sfumato, timido, mai incisivo, un insieme di elementi in sottrazione che non arrivano mai al punto. Dopo il trionfo minimalista di All is Lost (2013) con Robert Redford Chandor ha avuto tra le mani un cast notevole, Oscar Isaac e la lanciatissima neo diva Jessica Chastain. Non è bastato. Qualcosa è andato storto.
Chandor è finora stato sempre un regista di sottrazione, concentrato più sui primi piani televisivi e sui dialoghi e sulle pause contemplative che non sulla forza tellurica del montaggio sincopato. A Most Violent Year di violento conserva solo l’atmosfera che fa da sfondo, la cornice. Il resto è un susseguirsi di scene d’interni ed esterni dove il cosmo privato viene messo in confronto con la vita della strada, ma senza alcun intento immaginifico, come fece il Ridley Scott di American Gangster (2007). Chandor mette in scena il 1981 prediligendo la calma, modesta attesa interpretativa alla raffigurazione storica dei un tempo passato. Così facendo mina fin dall’inizio la capacità dello spettatore di immedesimarsi in un luogo altro. Là dove Scott reinventa il passato attraverso i flou visivi, le panoramiche articolate, la regia in perenne stato di sospensione emotiva, Chandor si limita all’enucleazione di una stantia direzione senza alcun controcampo memoriale di riferimento. Prende la storia senza mai farla diventare Storia. Non riesce mai a trasformare le immagini in un flusso emotivo di senso transcendentale.
E’ un peccato. Margin call e All is Lost erano due passi avanti enormi, A Most Violent Year è la parentesi con cui Chandor dichiara di non essere ancora pronto per il patentino dell’Autore. Il cinema americano di oggi ne ha bisogno. Paul Thomas Anderson (insieme e Wes Anderson) è l’unico della sua generazione, finora che si sia potuto permettere l’adozione di un’estetica che sposi radicalmente un’idea di cinema cosmogonico. Il suo Vizio di forma è una delle perle rare della stagione 2014-2015, un monolite spurio denso di prospettive sghembe, di sapori esotici e di controcampi rivelatori. A Most Violent Year si situa nel solco delle operazioni di mezzo: violento senza nuocere troppo, la sua cauta predisposizione a fare la morale (un nuovo imprenditore deve essere lasciato libero di portare avanti la sua impresa anche in un regime di squali com’era la New York dell’81), lo imprigiona in una atonia priva di emozioni, tale da rendere l’intero tessuto narrativo privo di un qualsivoglia fascino.
Finora la freddezza con cui la critica, con qualche isolata eccezione, ha trattato la stella nascente di Chandor, lascia intuire che i fuochi d’artificio futuri, se ci saranno, saranno presi nuovamente sottogamba, ma potrebbero scuotere silenziosamente le fondamenta di un sistema come quello hollywoodiano, che da poco si sta scrollando di dosso gli effetti collaterali del cinecomix. Il cinema di Chandor predilige una sete di silenzio che può essere apprezzata maggiormente solo ad un secondo livello di lettura. Il noir d’ambienti è servito al regista per una concordanza postuma su un cinema che potrà avere senso solo se si scrollerà di dosso l’incombenza di uno script da tradurre.