Una volta sceso il silenzio, solo la neve resta. É una neve annerita dai bombardamenti, smossa da troppi piedi inquieti, persi, macchiata da un sangue innocente e disperato. La neve resta ma è un testimone muto, fragile, inaffidabile. Con la primavera sparirà, e tutto quello che è stato, tutte le sofferenze, le follie, gli orrori a cui ha assistito, tutto sparirà con lei.
Ha il gusto dell’amara rassegnazione e, allo stesso tempo, del più tenace senso di necessità l’operazione che Ermanno Olmi porta avanti con Torneranno i prati, disperato canto funebre per i dimenticati della Storia, tentativo del cinema di colmare, ancora una volta, l’abisso della memoria, di piegare il tempo per tornare a quella fragile, fredda stagione di morte che è stata la Grande Guerra, per rievocare l’orrore che hanno patito i suoi dimenticati protagonisti in un immane gioco al massacro. Nella quotidianità della vita da trincea sugli altipiani del Nord-Est, in un inferno di ghiaccio fatto di disperazione, malattie e morte, è il senso, disperato, dell’assurdo ad aleggiare su fatti e persone. Nelle tonalità seppia che dominano la pellicola c’è il sentire sbiadito del ricordo e, insieme, il fortissimo tentativo di portare quella vecchia foto, quelle vecchie immagini ormai rovinate (come quelle, reali, che occuperanno, freneticamente, gli ultimi minuti del film) al presente, al cuore e alla ragione di uno spettatore per troppo tempo ignaro o indifferente.
Il regista de La leggenda del santo bevitore (1988) dipinge un’elegia che ha il gusto, tutto personale, di un’invettiva poetica, lontana da una didascalica, se non addirittura didattica, ricostruzione, distante da un retorico, piatto, attacco all’istituzione, al potere. Con rispetto, pudore e pochi tratti decisi(vi), ricostruisce, emotivamente prima che razionalmente, l’orrore di una guerra follemente assurda (ma quale guerra non lo è?), inutile, grottesca. Portando il suo occhio, solo per una notte, tra i meandri claustrofobici della trincea ci fa smarrire tra le (non) vite dei suoi soldati senza più speranza (“nei nostri sogni non c’era la morte”), senza più ideali, senza più futuro. Sono uomini semplici, anonimi, minuscoli come il titolo del film che li vede, per una volta, protagonisti, quei soldati esasperati da un’attesa irreale, di buzzatiana memoria (dove i tartari/austriaci sono sempre fuori campo), che si muovono, si avvicendano, parlano (pochissimo) come per scacciare il vuoto insignificante di un silenzio ormai inevitabile.
I loro sguardi che, dritti in macchina, interpellano, supplicanti, lo spettatore, sono gli sguardi dei figli di quell’umanità contadina che popolava L’albero degli zoccoli (1978), antenati di quegli ultimi che troveranno rifugio nella chiesa de Il villaggio di cartone (2011). Uomini semplici, deboli, ma forti della loro saggezza popolare, del loro senso poetico della vita, consapevolmente mandati al macello come bestie, sacrificati per nulla, per giochi di potere di ufficiali, alti funzionari, uomini di stato irrimediabilmente assenti dalla scena, nascosti dietro lo squillo di un telefono, dietro gli alibi della Storia. Questa piccola, personale, nostrana Sottile linea rossa, accorata ma mai patetica, esile, ma solidamente coerente nei suoi intensi ottanta minuti, non è nient’altro che un grido disperato dagli abissi di cent’anni di storia, una preghiera per scongiurare l’oblio, per ricordare un sacrificio tanto tremendo quanto assurdo. Una testimonianza viva (contrapposta alle morte celebrazioni scorte nel finale) che si fa monito universale dell’ingiustizia di cui è capace l’uomo, ricordo perenne, indelebile della sua follia. Anche quando la neve non ci sarà più.