Che il secondo lungometraggio di David Michôd dopo il promettente Animal Kingdom (2010) sia un film post-apocalittico non può certo stupire, dato il chiaro riferimento di The Rover all’epocale Interceptor (1979), il quale si può infatti considerare anche un tipico revenge-movie.
Proprio l’elemento della vendetta, peraltro, è quello che sembra cambiare maggiormente di segno in The Rover. Il protagonista Eric (un barbuto e iroso Guy Pearce), più che di un qualsiasi vendicatore, indossa infatti i panni di un uomo che vuole ristabilire una condizione antecedente all’angheria che ha subito (il furto dell’auto). Alla stessa stregua del Michael Kohlhaas di Kleist, nessuna violenza è quindi esclusa dal suo comportamento pur di ottenere la riparazione dell’ingiustizia. Evidentemente compiaciuto nella descrizione di un mondo che è precipitato nell’anarchia e nell’indifferenza più assolute, The Rover rovescia quindi facilmente le prospettive e le identificazioni. La possibile empatia dello spettatore con il protagonista viene presto spezzata e l’ostinata reticenza a spiegarne le ragioni si tramuta in disagio. Ridotto agli elementi essenziali, lo scheletro del film di Michôd consiste in una serie di tappe e di incontri in precario equilibrio tra forme elementari di solidarietà fra reietti e brutale cinismo dettato da primordiale spirito di sopravvivenza. Il paesaggio dell’outback australiano, desertico e ripetitivo, ha in questo senso una funzione rafforzativa, contribuendo all’assenza di punti di riferimento e all’enigmaticità della vicenda.
L’indiscutibile abilità nel creare un’atmosfera allucinata, che raggiunge l’acme nel saturnino e patetico personaggio di Robert Pattinson, non riesce a mascherare però del tutto i limiti di originalità del soggetto. Certo, The Rover è fatto di pasta ben diversa rispetto al misero These Final Hours, altro esemplare di film “aussie” (recentemente approdato anche nelle nostre sale) che immagina un mondo sull’orlo della dissoluzione . Ma lo schematismo di fondo dell’operazione non può essere rovesciato completamente dalla rivelazione finale (non la raccontiamo per rispetto di chi leggesse queste note senza aver visto il film) e non è sufficiente ostentare un lugubre pessimismo sulla natura umana, ferina e indegna di autentica pietas, a differenza degli animali, come suggerisce la bella sequenza in cui Eric fissa taciturno le gabbie degli animali domestici abbandonati dai padroni. David Michôd possiede uno sguardo incisivo e il suo film è complessivamente riuscito, ma per giungere all’eccellenza ha ancora un tratto di strada da percorrere.