È ancora dal sottobosco dell’horror indipendente che si possono portare alla luce piccole gemme oscure. The Taking of Deborah Logan, prodotto da Jeff Bryce e da “Mr. X-Men” Bryan Synger, segna il debutto alla regia di Adam Robitel con un lungometraggio da brividi, che non rifulge per verosimiglianza – nonostante il formato da mockumentary – ma riesce a possedere l’impaurita attenzione dello spettatore fino alle battute conclusive. Exuma, Virginia. A Mia è venuta l’idea di filmare la vita di tutti i giorni di Deborah Logan, malata di Alzheimer, per realizzare il lavoro conclusivo del proprio dottorato. Qualche sintomo, però, pare andare al di là della mera malattia. Si esumano vecchie storie di cronaca nera e – fisicamente – antichi cadaveri.
L’horror ha spesso sfruttato il filone dei creepy children, i bambini inquietanti variamente in contatto con entità soprannaturali. The Taking of Deborah Logan, invece, prima di avvicinarsi ad una versione di Paranormal Activity ancora più sbilanciata sul versante “possessione”, angoscia con un ritratto deformante della senilità e della malattia, specie nella prima e meglio riuscita frazione. Lo sguardo vacuo di Jill Larson in cui balugina un seme di follia, quel corpo a volte disarticolato che oscilla, marionettesco, tra la fragilità e l’aggressività, il trucco minimale e tutto il maquillage delle riprese evocative e degli sguardi rubati nello stile del found footage, coloriscono una parabola di sfacelo che deflagra nel soprannaturale.
I modi dell’esplosione, certo, restano discutibili. Il film di Adam Robitel, fidando, come molti esemplari più o meno affini, su vecchie storie da far riaffacciare al presente come presenze fantasmatiche, si concede qualche cadenza da thriller. Il tono resta sostenuto, anzi, l’odore rancido d’archivio del delitto è gustosamente pungente, ma certe svolte interne appaiono accelerate ed un tantino forzate. Similmente, se l’abito visivo della prima parte – il documentario di laurea – appariva legittimo, nella seconda alcune riprese “live”, pure efficaci nell’impatto, sospendono ogni logica narrativa.
Se si è disposti a soprassedere sull’improbabile trick da magia nera cinematografica che regola l’andamento del racconto, si verrà ben ripagati dall’atmosfera macabra come in pochi omologhi recenti; dal twist tutto adrenalina della “caccia al mostro”; soprattutto, da un’impressionante sequenza, nella parte finale, che divora letteralmente lo sguardo. Lo stesso epilogo, d’altronde, non sommerebbe nulla d’innovativo a tanti fake happy end del filone, ma a quel punto i giochi sono fatti: The Taking of Deborah Logan, è chiaro, non punta a sciogliere i nodi con agilità, quanto a squagliare le resistenze del disincantato spettatore degli anni duemila. Oggi, all’horror che spaventa non crede più nessuno: questo tentativo vale un’occhiata.