È difficilissimo ambire a scrivere su uno qualsiasi dei film di Tsai Ming Liang, e ancora di più lo è se il film in questione (Stray Dogs) è un tale coacervo di grandezza e astrazione che probabilmente dovrebbe essere lasciato libero di travolgere lo spettatore, senza nessun altro intervento a contaminare il suo rapporto con l’opera. Qualunque parola in merito, non può che proporsi come un timido tentativo di rendere omaggio a chi, come nessun altro, è in grado di dipingere, nel vero senso della parola, la realtà, la sua solitudine e il suo dolore. E non sarà mai abbastanza. L’unica cosa che riesco a immaginare anche solo avvicinarsi alla potenza esplosiva di quello che Tsai Ming Liang riesce a trasmettere, con le immagini, con i colori, con i silenzi, con gli spazi, con le espressioni incredibilmente belle dei suoi personaggi, che possa rendere vagamente l’idea delle emozioni, delle vere e proprie sensazioni fisiche, delle vertigini che è in grado di suscitare, è una sorta di nucleo rovente di magma emotivo che deflagra sprigionando un tumulto di impeto e di entusiasmo misto a dolore, disorientamento e meraviglia che pervade e stordisce chi viene investito ed entra in sintonia con il suo cinema.
E qualcuno che è capace di evocare qualcosa di così intenso, di lasciare interdetti e grati ogni volta che si ha la fortuna di godere di una sua opera, non può che posizionarsi sull’Olimpo di qualsiasi scala. Mi scuso per la premessa così enfatica, ma è davvero l’unico modo in cui posso anche solo pensare di avvicinarmi a un autore del genere. È palese come il regista taiwanese risponda, quando crea, a necessità e bisogni profondi propri, slegati da qualsiasi logica commerciale o convenzionale, una propria interiorità, che esprimendosi costantemente nei suoi elementi centrali, percorre la maggior parte dei suoi lavori negli anni, indipendentemente da qualsiasi limite posto dall’eventuale coerenza di una trama, della successione dei tempi, o da canoni narrativi, caratteri che vengono continuamente dilatati e distorti, dando a tratti la sensazione di trovarsi ogni volta all’interno di un unico, stesso, meraviglioso e per ora infinito, flusso di coscienza.
E allora, qui abbiamo un’opera in cui tre attrici (le stesse sempre presenti negli altri film di Tsai) possono interpretare un unico personaggio, in cui l’ordine degli eventi può non essere per niente scontato ed essere stravolto senza che vi si possa riconoscere un arco temporale avente un’unica direzione e univocamente interpretabile. Come sempre Tsai Ming Liang trova il miglior modo di esprimere sé stesso attraverso il preziosissimo canale umano, infinitamente efficace ed espressivo, rappresentato dal fedele compagno e attore protagonista di tutte le sue opere, Lee Khang Sheng. Quello di questi due uomini, è uno dei pochissimi esempi in cui un’intera carriera può a tutti gli effetti considerarsi il prodotto della comunione del lavoro di entrambi, e si può dire senza esagerare, che senza la presenza di uno, non potrebbe esistere l’arte dell’altro e viceversa. Dichiarato dallo stesso autore come sua ultima opera, Stray Dogs, per nostra fortuna, non lo sarà, ma probabilmente rappresenta effettivamente una chiusura, un punto di svolta, la summa di tutti i nuclei che possiamo riconoscere nelle opere precedenti. Primo tra tutti, una solitudine gigantesca, che pervade in modo devastante, l’intero percorso di vita di un uomo, che lo accompagna costantemente, fedele compagna di vita, a tratti ricercata e necessaria, a tratti disperata.
Una solitudine che percepiamo fortissima e che è tanto commovente quanto struggente come negli anni, passi dal manifestarsi ingenuo e infantile di un Lee Khang Sheng adolescente che, escluso dal mondo relazionale, in una stanza in cui nessuno può vederlo, bacia un’anguria (Vive l’amour), al vivere nella disperazione totale di un uomo sfinito e ubriaco, che soffoca con tutte le sue forze e fa a pezzi un cavolo. Solitudine, che oltre ad essere quella esplicita, coerente con il racconto di un uomo abbandonato che si ritrova a vivere una vita da incubo, lavorando come cartello umano, mentre due bambini piccoli vagano per la città e attendono che rientri così che possano mangiare, lavarsi in un bagno pubblico e dormire tutti e tre insieme alla luce di una candela in un unico letto, prima di tutto è una solitudine interiore, quella di chi fa fatica anche solo a guardarli i propri figli, a toccarli, che non riesce a godersi la torta e la canzone di compleanno che la sua famiglia gli ha preparato, che non riesce nemmeno ad avvicinarsi al tavolo.
La solitudine di chi non riesce a toccare la propria donna, prigioniero di spessissime mura di sofferenza che lo separano dal resto del mondo anche quando qualcuno e lì con lui, vicino a lui, quella di chi può stare chissà quanto tempo dietro di lei, morendo di dolore, senza riuscire a fare un passo, e riuscendoci soltanto nel momento in cui quel muro così duro viene scalfito dall’alcol, che lo disinibisce il tanto necessario per sbloccarsi in un timido e essenziale, meraviglioso abbraccio, che non basta. E noi assistiamo a tutto quel tempo infinito. Siamo lì con lui a soffrire quell’inaccessibilità, quella distanza enorme a pochi centimetri l’uno dall’altra, quell’impossibilità di incontrarsi e comunicare. Poche altre scene mi è capitato di vedere, che esprimano così tanto e con un’intensità tale, in un tempo della durata di circa quindici minuti, senza che venga pronunciata una parola. Ed è quella stessa solitudine che vedremo poi nel prossimo film di Tsai, Afternoon, in cui Lee Khang Sheng non interpreta altri che se stesso e fa la stessa immensa fatica ad accogliere e ricambiare l’affetto del suo amico regista, e la cosa più bella, quella che questi due grandi uomini riescono a esprimere in modo sublime, è come quella fatica e quella incapacità di vivere in reciprocità, di manifestare il proprio affetto, sia direttamente proporzionale a quanto esso sia grande.
Sono pochissimi i dialoghi in più di due ore. Mentre parlano i colori, quelli sì, parlano. Nel film, i colori sono veri e propri interpreti. Il blu in particolare, sempre incredibilmente coinvolgente, come in tante altre opere del regista, ma anche il bianco di una casa nuova e vuota, il rosso di una parete sconosciuta, il giallo abbagliante delle tendine di un supermercato, il grigio dei muri con le rughe. Anche il sonoro è fondamentale, riempie l’opera come i suoi colori, ogni suono ha il suo spazio, il rumore del respiro dei bambini che dormono, i rumori esterni delle macchine che passano, quelli degli uccelli e della natura del bosco, lo spazzolino da denti che si muove, persino i rumori della masticazione esprimono qualcosa. E il vento. Il soffiare incessante del vento insieme alla pioggia, unito alle immagini di un uomo che canta con gli occhi gonfi e che scoppia in lacrime, sono talmente incisivi che sembra di sentirlo nelle ossa quel freddo.
Impossibile per chi conosce bene questo grande autore, non individuare i piccoli scorci che rimandano alle altre sue opere, che brillano come perle per chi le può riconoscere, ma non sono necessariamente espliciti per tutti gli altri, come un padre che sistema il cibo nel piatto del figlio (The river), due donne che si scambiano affetto, insieme in un letto (Che ora è laggiù), lo stare con sé stessi in una vasca da bagno (Vive L’amour), un soppalco visto da fuori ( I don’t want to sleep alone), un muro che costeggia l’angolo di una strada sotto la pioggia (Goodbye Dragon Inn). E ancora altri ingredienti fondamentali come l’acqua, sempre stata un elemento cardine nei film di Tsai Ming Liang, anche in questo lavoro è una presenza costante, espressa come sempre anche dal sonoro, percepiamo sempre il rumore dell’acqua, mentre ci si lava le mani, il rumore della pioggia, il gocciolio delle pareti che piangono.
Incredibilmente bello e suggestivo il racconto a due voci echeggianti sullo sfondo delle immagini potentissime che riprendono le pareti in rovina.
Quelle crepe nei muri, sono state fatte dai fantasmi?
Il muro è malato.
Come è possibile?
Le case sono come le persone, si ammalano e invecchiano. Quelle crepe nel muro sono come rughe. Le vedi? Tutte le case hanno una storia.
Ma questa casa è spaventosa. Ha troppe crepe.
Non aver paura, ti proteggo io.
Anche mio fratello?
Vi proteggo tutti e due.
Come mai questa casa è ridotta così, cosa è successo?
È un segreto.
Raccontamelo.
Un giorno cominciò a piovere. Pioveva senza sosta. Pioveva tanto, finché l’acqua non è entrata. Allora la casa ha cominciato a piangere. Piangeva tanto. Non vedi le lacrime?
Sì, le case sono come gli uomini. Tra le infinite interpretazioni che si possono dare, le rovine del mondo che vediamo magistralmente messo in scena, quelle degli edifici deserti, le pareti crepate, gli spiazzi abbandonati, abitati da soli cani randagi, gli spazi coperti di calcinacci, potrebbero rappresentare, a partire dalla similitudine espressa da questa triste favola, delle rovine interiori. Quelle di un’anima che sta progressivamente e inesorabilmente andando in pezzi, a forza di essere sola e inaccessibile, che si sgretola senza il nutrimento di una impossibile reciprocità.