Poco dopo i titoli di testa, antichi simboli assiri, confusi assieme a eloquenti e perentorie frasi in latino, cominciano, da una sperduta grotta in Iraq, a comparire sui muri del Bronx, tremendi e ancestrali portali su altre dimensioni, varchi d’accesso per entità innominabili e fameliche. É proprio questa commistione, questo accostamento visivo suggestivamente grossolano che si fa antefatto e motore di tutti gli eventi narrati a denotare la cifra stilistica stessa dell’ultimo film di Scott Derrickson. Liberaci dal male, con le sue atmosfere, il suo intreccio, i suoi personaggi si rivela infatti, sin dai primi minuti, come un ibrido assoluto capace di attraversare disinvoltamente registri, tipologie, generi. É proprio attraverso questi, attraverso il loro continuo incastro, che l’autore organizza il suo gioco in un sovraccarico strutturale che ne è anche la più evidente e conclamata peculiarità registica.
Dopo il grande successo di The Exorcism of Emily Rose (2005), dove i toni da agghiacciante storia di possessione si fondevano con l’inchiesta giudiziaria, e l’intelligente rivelazione del registicamente più maturo Sinister (2012), piccolo e notevole prodotto capace di fondere intelligentemente thriller e horror, Derrickson, forte ora del contributo produttivo di Jerry Bruckheimer, non certo nuovo a operazioni di questo tipo, rincara la dose buttandosi temerariamente, insieme al suo immaginario demoniaco, tra le grandi e forti braccia del poliziesco (con, qua e là, qualche spruzzata di noir) cercando di dar vita alla quintessenza del thriller paranormale. Seguendo le tracce di precedenti più o meno illustri e più o meno riusciti, come Il tocco del male (1998) di Gregory Hoblit con Denzel Washington o il Constantine (2005) dalle fattezze di Keanu Reeves, e infarcendole delle più svariate occorrenze del cinema dell’orrore, dalle case infestate ai pazzi sanguinari passando, ovviamente, per le possessioni demoniache (inevitabili i continui rimandi a L’Esorcista), il regista costruisce un’oscura enciclopedia illustrata in cui, formalmente, non manca nulla.
Con la stessa disinvoltura che mischiava arcani geroglifici a evocative frasi rituali, Derrickson amalgama i generi tra loro, confezionando un incubo suggestivo, potente e dalla considerevole presa emotiva, ma allo stesso tempo fragile proprio a partire da quella “summa” che doveva esserne il vero punto di forza. La frammentarietà, conseguenza logica del flusso continuo ed esagerato di rimandi, diviene allora un ostacolo insormontabile all’economia e all’unitarietà di un film in costante bilico tra déjà vu e sprazzi di originalità, dove ad atmosfere da antologia si possono accompagnare, sparute, le note piacevolmente stranianti dei The Doors e a esorcismi da manuale si possono contrapporre tormentate introspezioni psicologiche.
L’inedita coppia composta dal rude e tormentato poliziotto di un monocorde Eric Bana e dal fascinoso prete ispanico alcolizzato interpretato da Edgar Ramirez (il personaggio più azzeccato del film) si affanna, poi, per dipanare un mistero non così inestricabile né così suggestivo e la componente orrorifica (per lo più sorretta dall’iterazione di piccoli shock emotivi sparsi per tutto il film) finisce col rivelarsi, inevitabilmente, meno suggestiva e convincente della parte poliziesca. Qualcosa, qualcosa di importante, Derrickson l’ha perso per strada, immolandolo, forse, al demone della grande produzione, vendendo l’anima (o, perlomeno, una discreta dose di talento) a un diavolo ben più concreto e pragmatico dei suoi demoni babilonesi. Resta la (timida) poetica di fondo di un autore impegnato a scomporre, sovvertire, rendere inedita l’infinita dialettica tra fede e ragione. Un’originalità latente che minaccia di perdersi tra le pieghe di un horror come tanti.