Arriva in Italia con più di un anno di ritardo, in circa 80 sale, Il Mago – L’incredibile vita di Orson Welles, nuovo documentario dello statunitense Chuck Workman, ambizioso e necessario progetto che si propone di narrare nell’arco di un’ora e mezza l’esistenza fuori dal comune di un gigante dello spettacolo. La parabola artistica di Orson Welles viene percorsa nella sua interezza, divisa in una manciata di capitoli, a cominciare dalla precoce e precipua propensione all’arte teatrale (che già allora gli attribuiva la nomea di “wonder boy”, “ragazzo prodigio”), i cui primi significativi sviluppi avvennero al Gate Theatre di Dublino e alla Tood School di Woodstock (Illinois), per approdare alla leggendaria compagnia del Mercury Theatre (attiva anche negli studi radiofonici), fin dalle rappresentazioni esordiali al centro di critiche intransigenti come d’entusiastiche accoglienze. Seguono quindi i pressoché ininterrotti intrecci fra set e palcoscenico, fra script illuminati di incompresa visionarietà e memorabili messinscene shakespeariane.
Questa laboriosa ricerca porta Workman al coordinamento (anche a livello di montaggio) di una grande messe di materiali, che spaziano da interviste ex novo ad un’ammirevole collezione di registrazioni d’archivio (c’è spazio persino per un brevissimo stralcio da una notte del nostro Fuori Orario in cui compaiono frammenti dal Don Chisciotte), tutte fonti che fotografano alternatamente il protagonista, con una spiccata predilezione alle partecipazioni straordinarie ai diversi show della tarda età, e molteplici studiosi che hanno avuto occasione di approcciarvisi con maggior o minor confidenza: fra i più eminenti, Steven Spielberg, George Lucas, Martin Scorsese, Peter Bogdanovich, William Friedkin, Richard Linklater, Paul Mazursky, Simon Callow (biografo di Welles). Ne esce un ritratto brioso, sostenuto efficacemente da un ritmo che mai s’azzoppa, nonostante a tratti risulti sovrabbondante la proposta simultanea di esperienze visive e sonore, resa ulteriormente ardua dalla necessità dei sottotitoli nelle edizioni straniere. Ciononostante, non mancano alcuni incisi insufficientemente approfonditi (come lo sfuggente riferimento a Too Much Johnson), messi in ombra in favore di un’economia dei contenuti che conceda di abbracciare l’intero corso della vicenda senza rischiare di costruire un mausoleo dall’accesso elitario.
Il lungometraggio convince nel mostrare un autentico “re senza regno”, intelligentissima autorità rispettata nel campo del senso comune, eppure scalzata da dirigenti, produttori e talvolta critici molto meno lungimiranti e sensibili di fronte un’effettiva qualità artistica che solo i posteri avrebbero saputo riscoprire in larga parte (e purtuttavia non ancora bastevolmente). Il mito di Kenosha è a ragione definito da Linklater (autore del film Me and Orson Welles, 2006) “santo patrono del cinema indipendente”, epiteto che cattura con fedeltà il suo profondissimo sentire il cinema, cui lo legava un rapporto di vero amore, maledetto in quanto destinato all’imperfezione eterna (al termine di ogni nuovo lavoro giungeva la sensazione di non averlo compiuto “abbastanza bene”), maledetto in quanto ostracizzato dal sistema hollywoodiano, che mai avrebbe potuto penetrare a fondo l’impopolare concezione estetica del regista. Irremovibile nelle sue condotte sceniche, proprio in virtù di questa padronanza, per quanto appresa attraverso un cammino empirico, egli era mago, maestro dell’inesplorato, magnifico “agente” in quel gigantesco palcoscenico che è il mondo.
Nel documentario è inoltre messo ben in luce come, nonostante tale irriducibile errare alla ricerca di chi appoggiasse le sue cause, motivo dei suoi numerosissimi ruoli attoriali e dell’incompiutezza di alcune promettenti pellicole, fino all’ultimo giorno non abbia voluto sacrificare la sua vena autoironica, che lo predisponeva ad esibirsi in compiaciute ed apprezzate parodie. Da evidenziare, infine, l’inserimento di copiosi omaggi cinefili, chiaro esempio di come la lezione incarnata dalla filmografia di Orson Welles non abbia mai smesso di influenzare le produzioni a venire: si pensi agli estratti da Ed Wood di Tim Burton, Creature del cielo di Peter Jackson, Radio Days di Woody Allen, Get Shorty di Barry Sonnenfeld, fino al biografico RKO 281 di Benjamin Ross e all’illuminante striscia Peanuts che sbeffeggia Quarto potere.