Dopo La ragazza di fuoco, toccherebbe alle mitraglie sputafuoco: al suono dei caccia futuristici si consuma nelle sale la svolta bellica di Hunger games 3, o 2 e mezzo, non è ben chiaro. Il canto della rivolta – parte 1 rientra nella stessa logica profittuale che in passato ha segato i finali di saga di Harry Potter e Twilight, per cui l’adattamento cinematografico della serie letteraria di Suzanne Collins decide di non sparare le ultime cartucce. Un bene o un male – conta poco: la scialacquatissima parte centrale di questo poco riottoso terzo capitolo, pure incentrato sulla guerriglia di resistenza alla dittatura di Capitol City, lascia pensare al brodo allungato, ma ormai il flavour è tutto nel “come finisce?” e nella deliziosa grinta di Jennifer Lawrence.
Katniss ha ripreso coscienza nel Distretto 13, senza Peeta (Josh Hutcherson) e con qualche conflitto d’identità. I ribelli ne vorrebbero fare l’icona della resistenza, affiancandole uno staff che oscilla tra i novelli Coco Chanel e i Goebbels buoni: la propaganda si fa tra sartoria e set cinematografici, tra il look della cacciatrice muscolare e i discorsi più o meno recitati, più o meno spontanei, scatenare l’effetto eco della Ghiandaia Imitatrice. Da un lato l’algida leader Alma Coin (Julianne Moore) col fido guru della comunicazione (Philip Seymour Hoffman), dall’altro il Presidente Snow (Donald Sutherland), con Peeta (a fare da contro-icona all’amata rimasta dietro le barricate opposte. Schermaglie e duelli di schermo, con la complicazione che la novella Giovanna d’Arco, più che alla faretra, pensa ai dardi di Cupido che la legano allo pseudo-antagonista Peeta.
Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte I di Francis Lawrence è deludente per più di una ragione, ma per più di una ragione non deluderà gli appassionati. È deludente perché nonostante la presunta accelerata action dovuta all’apertura dei fronti di guerra, sembra dispensare svogliatamente e con la regolarità del compitino le poche granate visive e le iniezioni di adrenalina (più vivace, in questo senso, la parte finale); perché, inoltre, vorrebbe trovare spessore nel farsi gioco di strategia, nel diventare una riflessione sui meccanismi della comunicazione, eppure si abbandona a cadute di ritmo e mélo sfiorati. Non deluderà gli appassionati perché, come nei più scaltri serial (con tanto di cliffhanger finale), campa ormai di fidelizzazione e curiosità, al punto che vecchi personaggi spuntano come i cavoli dal nulla – vedasi l’Haymitch di Woody Harrelson – o non fanno altro che scavare con ulteriore incisività i solchi di una silhouette già nota.
Se da questo punto di vista il villain Sutherland è di una cattiveria quasi obbligatoriamente monocorde, e Peeta-Hutcherson conferma la paresi mascellare, sono almeno due le voci che più stentoree riescono a levarsi nel canto della rivolta alla banalità. La prima è quella del compianto Philip Seymour Hoffman, il genio della pubblicità politica dei ribelli, e chissà che non sia davvero un mad man, tanto è untuosamente furbo pur essendo uno dei nostri. La seconda è invece quella della solita Jennifer Lawrence, che a dispetto di una scrittura che accennerebbe a farne a tratti un idolo teen troppo romantico, riesce a sfumare l’interpretazione con accenti da eroina sull’orlo di una crisi di nervi: altro che la Libertà che guida il popolo, il dubbio è che sia telecomandata. Sempre brava a recitare di pelle, lascia avvertire il brivido di chi si sente manipolata come una Barbie in divisa, integrando ed arricchendo il tremito d’amore che avrebbe fatto troppo “effetto fotoromanzo”.
Tra il salvate l’amato Peeta e lo snervante, farraginoso Risiko, Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte I più che trovare un equilibrio di toni e generi, d’azione e di sentimento, di senso e d’intrattenimento, s’incastra nella saga, con quella compiacente funzionalità che nulla apporta sul fronte di Capitol City, e che nondimeno, in ottica seriale, basta a fare il botto ai botteghini.