Chi ha avuto la fortuna di vedere Century of birthing (Orizzonti-Fuori Concorso, 2011) e From What is Before (Pardo d’Oro a Locarno nel 2014) ha già avuto modo di incontrare una delle poetiche più spiazzanti e sbalorditive degli ultimi anni, quella del regista filippino Lav Diaz, dove la complessità dei lunghi piani sequenza si sposa ad una dialettica tra suono e immagine, dove passato presente e futuro convergono, andando a configurare la rinascita dell’immagine, nella significanza di un’umanità in transito. Nel caso dei due film sopracitati si tratta di due siluri di purezza visiva abbacinante, senza eguali.
La distribuzione italiana porta ora sugli schermi il titolo più corto girato negli ultimi dieci anni da Diaz: il documentario Figli dell’uragano (Storm Children: Book One, 2014). L’occasione è dunque irripetibile: per la prima volta su grande schermo, viene proiettata l’arte del grande cineasta filippino, vista finora solo nei festival. I film precedenti, vista la fluviale durata, che va dalle quattro ore di Norte, the end of history (2013), alle otto di A Lullaby to the Sorrowful Mystery (Orso d’Argento per il cinema del futuro a Berlino 2016), alle cinque e mezza di From What is Before e alle quasi sei di Century of birthing, sono stati finora impossibilitati alla distribuzione, a meno di una necessaria suddivisione in capitoli, che si è avuta nel caso dell’opera di Miguel Gomes, As mil e uma noites (2015), e che nel caso di Lav Diaz, dove i film non sono neanche suddivisi in capitoli (come fanno e Peter Jackson, Von Trier e Tarantino), perciò una ipotetica suddivisione per le sale italiane sarebbe da concordare con il regista.
Davanti a I figli dell’uragano, la distanza estetica rispetto al cinema puramente di finzione (o di ricostruzione storica nel caso di From What is Before) si sente innegabilmente. Lav Diaz riprende angoli delle strade del paese dove si è abbattuta la tempesta, inquadra il fiume che trascina via qualsiasi cosa, mostra i bambini nell’atto di raccogliere i resti di plastica o di legno, si concentra sugli effetti dell’uragano, senza applicare alcuna aggiunta estetica alle immagini che nella loro rimarchevole povertà, dicono da sole tutto. La prima ora è la più composita e si rischia la mise-en-abime nel territorio dell’estetizzazione formalista. La seconda parte è invece più movimentata e narrativa, dove i sopravvissuti all’uragano descrivono cosa è realmente successo e la loro miracolosa salvezza dalla calamità. La fotografia fa il resto. Lav Diaz possiede una precisione ed una sensibilità quasi chirurgica nell’indirizzare lo sguardo negli anfratti di un mondo mai visto.
Di conseguenza, anche se la struttura del documentario non concede a priori la liberazione del genio creativo del regista filippino (tutta la parte conclusiva di Century of birthing), pur non accendendosi in epifanie di devastante e inedito impatto visivo, Figli dell’uragano riesce comunque a inserire nel quadro visivo le istanze più profonde della calma compositiva del regista. Una dimostrazione di potenza silenziosa da parte di chi ha soffiato nell’uragano del tempo il proprio desiderio di fermare il tempo, a volte riuscendoci in pieno.