L’immagine viene prima di tutto. Ridley Scott lo ha sempre ribadito nella sua lunga carriera. Non c’è genere che l’autore de I Duellanti (1977) non abbia esplorato: commedia, noir, sci-fi, thriller, dramma femminista, road-movie, kolossal biblico, guerra, dramma storico. Mancano ancora all’appello l’horror (anche se nel pessimo Hannibal emergevano punte di grottesco splatter degne di un episodio di Hostel) e il western (anche se Thelma e Louise metteva insieme scenari western e road movie femminista). Exodus Dei e Re è un evidente esercizio ginnico (comunque piuttosto costoso: 127 milioni) inserito tra un thriller erotico vecchio stampo (The Counselor Il Procuratore) e il prossimo ritorno alla fantascienza pura.
Bisogna ammetterlo: dopo la punta di diamante di Prometheus ci si era illusi che Scott fosse tornato ai suoi livelli migliori. L’operazione di The Counselor aveva destabilizzato le acque, confondendosi come mix selvaggio tra propensione verso una classicità tagliata in modo sopraffino e banalità nei dialoghi e nei caratteri di contorno. Molti hanno voluto vedere in The Counselor uno stile scottiano finalmente scevro da stilizzazioni e manierismi di sorta. C’è da dire che quasi nessuno ha visto il genio in un film come Prometheus e questa senz’altro letta come indicazione di un superamento del genere da parte del regista, nei confronti di aspettative spettatoriali non proprio consone al risultato definitivo.
Ora veniamo a Exodus. Si tratta di un kolossal perfettamente a suo agio nell’elaborazione scientifica di ambientazioni riconoscibili in un immaginario di genere già codificato. Il problema è che non ci sono variazioni. Scott ha offerto esattamente lo spettacolo che ci si attendeva. Exodus non va oltre la magniloquenza di forme storiche antecedenti all’immagine, si vede costretto a ripetere un canovaccio denso di rimandi ad altre mitologie, ai kolossal di Cecil B. De Mille degli anni ’50, permette all’immagine di farsi aporia di una visione già metabolizzata.
Lo script di Exodus è pieno di buchi: lo era anche quello di Prometheus, ma là per puro miracolo di regia i difetti sullo schermo non si vedevano. In Exodus le mancanze dello script dovrebbero essere controbilanciate da straordinarie invenzioni visive. In Prometheus funzionava il principio della riduzione di campo nella totalità della cosmogonia messa in scena: il dettaglio risaltava più dell’insieme dei vari componenti e la messa in forma dello scacco interpretativo aiutava lo script ad elevarsi a pura esegesi dello sguardo. Ogni scena di Prometheus è più che sensata come dispiegamento di un incubo. In Exodus la parabola biblica si esemplifica nella totalità e mai nel dettaglio.
L’esempio cangiante sta nella raffigurazione del mito compiuta da Ridley Scott. Nella scena in cui gli ebrei guidati da Mosé attraversano il mare Scott si sofferma su un “dettaglio” rivelatore: un’ondata gigantesca sta avanzando verso lo spettatore, in basso al centro si vede un cavallo bianco che corre in avanti. Questo simbolismo è usato per comporre un’elegia della sparizione, nel contesto di un cinema inteso come punto di fuga. Exodus è una ricognizione intorno all’immagine perduta, la ricomposizione di un tardo rinascimento dell’immagine che elabori un surplus di memoria. Ma il gioco vale finché le regole sono imposte fin dall’inizio come prosecuzione di una mitologia inerente al quadro di riferimento.
Exodus rimane un kolossal di pura immagine che pretende di farsi anche valere come mitologia di riferimento. Ma Cecil B. De Mille non si può riadattare ai nostri tempi. Girare un kolossal biblico come fosse un film di fantascienza sui generis è un’impresa che non è mai riuscita nella storia. Vedremo se con The Martian Scott dimostrerà di essere tornato sui suoi passi, generando un’altra ellissi della visione. Un nuovo capitolo sulla decostruzione immaginifica del già benedetto cinema di fantascienza scottiano.