La cornice è quella del Texas alla fine degli anni ’80 e lui, un corniciaio, si chiama Richard Dane. A quanto pare maneggia benino anche le pistole, visto che una notte gli capita di freddare un intruso nel proprio appartamento. Nessun problema – è legittima difesa – se non fosse per il fatto che il padre del defunto parrebbe intenzionato allo stalkeraggio massiccio, con annesse ambizioni di vendetta. Anche qui, nessun problema – parrebbe: la polizia vigila. Ma la polizia, scopre Richard, a sua volta nasconde qualcosa.
Lui, Jim Mickle, è il regista del sopravvalutato Stake Land, nonché un abile artigiano di cornici, ossia di film più o meno vivaci – dire “eleganti” sarebbe troppa grazia – a cui è fatto divieto assoluto di penetrare oltre la superficie: si scoprirebbero poco più che mutazioni varie dell’action d’ogni salsa. Così, Stake Land era un horror, un film d’avventura, un film di fantascienza, e – perché no – un fantasy gotico; Cold in July parte come un neo-noir (l’asfittica sequenza iniziale alla The Purge), sembra sprofondare nell’abisso di qualche dramma psicologico (il tormento del protagonista dopo l’uccisione a sangue freddo), passa da un’impennata revenge a licenze ironiche (entra in scena Don Johnson, improbabile investigatore démodé quanto l’accoppiata stivaloni-Cadillac), continua a martellare con una colonna sonora alla Carpenter tutta sintetizzatori; alfine, sintetizza maluccio il tutto, mutando in una sorta di buddy movie, con troppe distonie per risultare veramente ben orchestrato.
Se anche riuscisse gradevolmente spiazzante l’effetto d’approdare con l’epilogo in lande diverse, forse anche più brulle e maledette, di quelle presumibili dapprincipio, ci sarebbe comunque da ridire sugli itinerari lungo un Texas al più a bagnomaria rispetto all’altrimenti gelido Cormac McCarthy, indeciso tra stereotipo e realtà. Segnatamente, tragitti similmente zigzaganti non sono nemmeno troppo sorprendenti, conoscendo i precedenti di Joe Lansdale, l’eclettico scrittore, già sceneggiatore di Bubba Ho-Tep, a cui si deve il soggetto dell’ultimo film di Mickle. Questi, da par suo, zigzaga anche troppo con la macchina da presa, abusando di carrellate e close-up, alla ricerca di uno stile cocciutamente ansiogeno: come nella scena in cui un uomo costringe l’altro a disseppellire una bara in un cimitero, ed il regista costringe lo spettatore ad una miriade di punti di vista della stessa scena.
In un film in cui vacilla tutto, dal campo visivo alla storia stessa, rimescolata con cambi di fronte e nuove tracce, ciò che resta saldo è quanto volevasi dimostrare all’inizio: che Mickle, in fin dei conti, possiede il polso del pulp, e nelle scene d’azione – compreso il sanguinoso finale – riesce a dare il proprio meglio. È un regista, cioè, che ha bisogno di raccontare in presa diretta, di far palpare la tensione; ogni qual volta il ritmo s’assesta, il racconto diventa tiepido, come capita a tutti gli autori sostanzialmente poco destri nelle sfumature: i complottini sono stiracchiati, i personaggi reticenti. Bene, allora, godersi “Cold in July” nelle pistole fumanti e non pretendere di vagheggiare orizzonti ed iconografie più ampie: sarebbe solo un miraggio, effimero, nell’aria calda del Texas.