Automata si apre con una tagline che esemplifica al meglio il messaggio universale sulla conservazione dello status quo di ogni essere vivente: “Sopravvivere non è abbastanza, noi vogliamo vivere”.
Presentato il 20 settembre 2014 in Concorso al Festival Internazionale del Cinema di San Sebastián, il film del madrileno Gabe Ibáñez formatosi tra pubblicità, videoclip ed effetti speciali, arriva sugli schermi dopo sei anni dall’esordio con Hierro. Se il primo film era un’indagine sull’agonia di una donna consumata dalla follia, Automata ruota intorno alla lotta per la sopravvivenza di robot dotati di parziale coscienza. Ibanez, uno dei migliori allievi della scuola di Cuarón, conferma la linea estetica di un regista che indaga nei meandri della mente, con la differenza che la narrazione non ruota più attorno ad un uomo, bensì ad una macchina.
Debitore verso gli incubi di Lynch e le perversioni di Polanski, Ibáñez prende distanza dagli illustri maestri, preferendo una minore spettacolarità in favore di una più decisa introspezione. Come in ogni buon thriller che si rispetti, l’indagine conduce ai confini della città, nel ghetto, salvo poi con una brusca sterzata catapultarci nel deserto, bianco, asfittico, surreale. L’ atmosfera si satura, l’azione lascia il passo alla meditazione, e la vicenda personale di un uomo si fa specchio del destino dell’intera umanità. Da Blade Runner di Dick e I, Robot di Asimov, gli antecedenti si sprecano.
Basato su uno script con un incipit notevole, seppur non originalissimo, il film si adagia su riflessioni moraleggianti che affossano l’andamento della vicenda, senza riuscire a indagare a pieno l’aspetto più intimista e profondo, il dialogo distensivo tra uomo – macchina, che è alla base dell’intreccio. Il pellegrinaggio verso nuovi orizzonti, la ricerca della salvezza e l’immortale spirito di sopravvivenza passano dall’uomo, sfinito dalla vita fatiscente delle celle metropolitane, ai nuovi androidi, che trascendono i limiti biologici insiti nella razza umana per riportare la speranza nelle zone ormai rese inospitali dagli stravolgimenti climatici.
Un Antonio Banderas reduce da decenni di spot in veste di mugnaio felice, per gran parte del film recita in mezzo a lattine umanoidi, è pacato e monocorde , non si fa quasi mai sopraffare dalle emozioni, in analogia con l’atmosfera meditativa del deserto, resa magicamente onirica dalla fotografia di Alejandro Martínez. Insomma, se volete un buon action movie con substrato sci-fi, questo non è il film adatto. E forse è meglio così.