“La rivoluzione è cinema”, sentenzia Rithy Panh, sopravvissuto a quella sentenza di morte che fu la tragica dittatura di Pol Pot in Cambogia. Ma la rivoluzione – lo dice proprio il cinema, parafrasando Mao – è un atto di violenza: e la stessa immagine cinematografica ne diventa vittima. L’immagine mancante si apre allora con dissolvenze a catena sulle quasi dissolte pellicole d’epoca, ammutolite e deformate, stipate alla peggio in qualche rugginosa custodia. Al superstite non resta che documentare con l’evocazione, facendosi demiurgo più che archivista: con figurine di terra rossa, plasmate ed intagliate amorosamente, si ricreano scene e scenari, teatri dell’orrore, infilando – quando possibile – un’immagine d’archivio. Graffiata; falsata: perché “la rivoluzione è cinema”, e come nel recente “Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte I”, le sequenze video della propaganda ufficiale sono al più montaggi farlocchi.
La prima statuetta vien fuori da un primo piano, tra mani ruvide, che trasformano la terra in un totem, in una memoria, in un ricordo. Poi il racconto: sobrio, dolente, toccante. I Khmer Rossi entrano a Phnom Penh; la vita del bambino, figlio di un insegnante e membro di una numerosa comunità, diventa un incubo. Le truppe di Pol Pot deportano, schiavizzano, annientano; nelle stanze dei bottoni il socialismo è un’utopia ottusa, nei campi la violenta realtà è fatta di silenzi che urlano, di porzioni razionate allo sfinimento, di lucertole divorate per fame, d’acqua tracannata da pozze intorbidite dal fango. A nessuno è concesso avere proprietà personali: al massimo un cucchiaio – e se va bene, quel barlume d’umanità da custodire gelosamente, perché possa un giorno raccontare, rigenerando l’immagine che mancherà ai posteri.
Sia pure nella più (obbligatamente) artificiosa delle situazioni, un documentario con pochi documenti, la testimonianza di Rithy Panh assurge ad una verità profonda, impastando argilla e sangue per evocare materialmente i ricordi. Con la potenza di uno stuccatore, ma rifuggendo ogni stucchevolezza, il regista non costruisce soltanto un attendibile diorama della memoria. Ciò a cui approda “L’immagine mancante” è una costruzione di senso, a cui contribuisce non solo l’orchestrata interazione di parole ed immagini, ma anche un’intuitiva, illuminata condotta narrativa. Per far scottare sulla pelle un passato consumatosi nelle pellicole bruciacchiate, c’è bisogno anche di richiamare l’infanzia felice, con le scene in città tra colori, folle chiassose, amanti ai primi baci, le luci del cinema, le bancarelle odorose al mercato. Per capire quegli esseri umani, diventati golem spersonalizzati, ridotti – per dirla alla Primo Levi – a “pupazzi sordidi e miserabili” – si fa anche ricorso a qualche contrastante lacerto: una ballerina imbellettata, bambolina rubata a chissà qualche spettacolo, finta come il filmaccio fake che apre The Act of Killing di Joshua Oppenheimer.
Quella di Rithy Panh è una sorta d’alchimia, una trasformazione della materia per recuperare l’umanità: il cinema, anche mancato, inverte il corso biologico, e dall’humus dell’immagine, dalla polvere, risorge affaticamente il senso dell’essere uomini. Così nel silenzio – come quello del padre del sopravvissuto, che semplicemente si lasciò morire per protesta, smettendo di mangiare – come in un’immagine perduta al pari di tutto quel mondo, da disseppellire con un’archeologia dell’emozione, con la demiurgia del cinema che si fa genesi: “con argilla ed acqua, con i morti, con i campi di riso, con mani viventi, si fa un uomo”. Sì, questo è un uomo.