Il cinema è un mosaico in continua trasformazione, un medium denso che calibra apparati visivi conformati come finestre che si aprono in un mondo più ampio, vario, eterogeneo. Nel suo ultimo film, In Trance, Danny Boyle rimette in discussione le regole del thriller, attuando una scomposizione interna al quadro che seduce, respinge, prende alla gola per non lasciare più.
In Trance può respingere, dando ulteriori motivi ai critici che ne detestano lo stile per disprezzarlo ancora di più. Eppure Boyle, alla stregua di un De Palma degli anni ’80 o del Soderbergh di Effetti collaterali mette il coltello nella piaga del thriller generando un’opera che non si esaurisce in una passerella di personaggi bidimensionali, ma opera uno scarto intorno al presente, costruendo un raccordo infinitesimale tra passato e futuro del cinema.
Lo stile di Danny Boyle è sovra eccitato, eppure il regista inglese non si abbandona mai alla retorica della camera a mano che “impazza” la visione (Elysium, Captain Phillips, Pacific Rim), tiene ben saldo il piano dei primi piani costruendo un solido, imprevedibile (miracolo nel cinema di oggi così didascalico!) delirante tour-de-force immaginativo in surplus, un’opera che si pone come minaccia a viso aperto nei confronti dello spettatore.
Con In Trance siamo dalle parti, oltre che di Effetti collaterali, de La Migliore Offerta di Tornatore, altro grande thriller sulla vertigine dello sguardo che ha fatto non poco infuriare una parte della critica italiana.
Danny Boyle utilizza ogni volta (dopo 127 Ore) una storia che metta lo spettatore con le spalle al muro. Dopo la storia folle dell’escursionista costretto ad amputarsi un braccio per liberarsi dalla trappola in cui si era cacciato, per suo stesso eccesso di sicurezza e superficialità, questa volta Boyle prende di petto il tema del gioco mentale dell’ipnosi, istallandoci sopra un effettistico thriller sul furto di un dipinto, durante un’asta in una Galleria d’Arte.
Boyle procede per accumulo di situazioni assurde, aumenta la suspence fino al parossismo, mantenendo sempre la calma di un segugio nel seguire le sue prede in fuga da un destino che non potranno mai risolvere. Quando si giunge alla conclusione, nel finale, e si scopre l’inghippo, si capisce di essere stati vittime di una truffa estetica, ma si applaude a viso aperto alla costruzione semantica, ad un gioco dei ruoli sempre catartico.
Il cinema di Boyle crea dunque un dispositivo dove l’accumulo si presenta come elemento narrativo di un crimine ben congegnato, che disintegra ogni certezza e apre le porte sull’abisso di una situazione completamente sfuggita di mano, dove alla fine non si sa più chi ha commesso il crimine e perché.
L’operazione di radicalismo estetico accompagnata da un rifiuto della bidimensionalità, fa entrare lo spettatore “in trance”, costruendo un punto di vista in 3D senza alcun bisogno di supporti che “filtrino” la visione.