Dopo 12 anni di prigione Dom Hemingway, professionista del crimine, torna in libertà. Trovatosi in Francia con l'amico Dickie, chiede al suo boss un premio in cambio del silenzio. Non riuscendo ad ottenere nulla, in preda ad alcol e droge, dovrà fare i conti con la figlia che non rivede da anni.
Diretto da: Richard Shepard
Genere: commedia
Durata: 93'
Con: Jude Law, Richard E. Grant
Paese: UK
Anno: 2013
Dom Hemingway parte bene. Jude Law (il Dom Hemingway del titolo) guarda dritto in macchina e attacca furiosamente con un’ode al suo cazzo: un’opera d’arte a suo dire, un capolavoro al pari di un Picasso, di un Renoir, una meraviglia unica che andrebbe studiata nelle scuole(!).
Dom Hemingway è il solito antieroe sbruffone, uno scassinatore di casseforti della vecchia scuola – come fieramente si definisce – appena uscito di prigione dopo dodici anni, che sembra fregarsene di tutto e tutti, che pesta quasi a morte il compagno della ex-moglie defunta. E ancora qui tutto bene. Ma di sequenza in sequenza, Dom Hemingway si rivela nient’altro che una fiacca pulp-comedy, un annacquato cocktail di umorismo nero dalle grottesche e divertite tinte noir, ed il solito cliché del loser in cerca di una seconda occasione.
Già poco dopo i titoli di testa il film di Richard Shepard (The Matador, The Hunting Party) comincia lentamente a zoppicare, a trascinarsi stancamente. Un personaggio come Dom Hemingway ci si aspetterebbe di vederlo dall’inizio alla fine farsi strada pregno di fiera e compiaciuta cazzonagine: nudo come un verme, barcollante, con una bottiglia di whisky in mano, sigaretta al lato della bocca, insultando tutti, giocare sempre più sporco, fino a farsi male davvero, e poi ricominciare tutto daccapo magari.
E invece no. Dom – e con lui tutto il film – si ammoscia (verbo usato non a caso), fino ad esaurire completamente la sua carica dissacrante intravista all’inizio. E da un certo punto in poi ci si comincia a chiedere se il film di Shepard sarebbe stato più interessante (o forse no, dipende) se fosse stato meno sopra le righe, se fossero stati suoi toni più dolenti e (semi)tragici che avvolgono certi loser noireggianti senza gloria né redenzione.
Qua si ha l’impressione, invece, che si voglia dare un colpo al cerchio e uno alla botte: l’oscillare dal politically uncorrect del cazzaro senza causa Dom a fastidiose derive lacrimose (la difficile riappacificazione con la figlia e il rimpianto di non esser stato vicino alla moglie nei suoi ultimi giorni di vita). Insomma anche Dom, in fondo, è un animo ferito in cerca di redenzione e amore, di un posto nel mondo – che noia! -, ed è proprio questa piega presa dal film che lo fa precipitare irrimediabilmente.
Ma, soprattutto a monte, il film deraglia a causa dell’incapacità di Shepard di trovare il giusto equilibrio, di frullare felicemente le due anime: quella farsesca-pulp (già di per sé fiacca) e quella drammatica (un concentrato di cliché). Il cazzo di Dom sarà pure un capolavoro, ma il film non ci si avvicina nemmeno lontanamente.