Proviamo ad affrontare The Sessions Gli incontri con qualche metafora. Se fosse un calciatore, The Sessions sarebbe un mediano, un incontrista, un centrocampista più che altro difensivo, coi piedi discreti, ma non una grande personalità.
Se fosse un cantante, The Sessions sarebbe un cantautore piuttosto tradizionale, ma con la velleità di toccare temi sentiti e dibattuti, sia pure con un atteggiamento prudente e poco tagliente. Se fosse un libro, The Sessions avrebbe buone possibilità di scalare le classifiche: almeno in Italia. Ma la scarsa propensione alle interviste del suo autore, potrebbe precludergli il successo di massa.
The Sessions rappresenta bene un genere di film di compromesso che piace al sistema. Adattato da una storia vera (quel tipo di precisazioni talmente abusate nei credits cinematografici da avere perduto ormai qualsiasi importanza), è il tipo di film che, stando attento a non urtare la sensibilità di nessuno, finisce col non avere uno sguardo forte quanto la sua tematica. La storia del poeta colpito da poliomielite e costretto ad un polmone d’acciaio per la maggior parte del suo tempo, ma risoluto ad affermare il suo diritto alla vita e alle soddisfazioni del sesso con partner, innesta un tocco di spregiudicatezza su un tema progressista ampiamente raccontato dal cinema americano.
Un’attrice di buon nome come Helen Hunt, che mai prima d’ora si era spogliata, si immola per la causa, mostrandosi spesso nuda integralmente e intenta a risvegliare il corpo del paziente/partner: la cosa lascerebbe in sé il tempo che trova, ma è proprio qui che si capisce l’approccio al tema. Il nobile intento giustifica il sacrificio.
Non vogliamo svalutare eccessivamente il film, che fa il suo lavoro per un pubblico già convinto. Ma a mancare, in The Sessions, è il dramma. Mark O’Brien (John Hawkes, davvero bravo) ha passato tutta la sua vita ammalato di un male che gli impedisce di avere rapporti con le donne, cosa che egli desidera ardentemente. Non una parola, però, sulle sue fantasie più intense. Le immagini lasciano capire appena qualcosa (il cunnilingus è risolto con una gag), ma la discussione tra l’infermo e la terapista Sheryl si snoda fra terminologie mediche che avvolgono gli atti sessuali di un’educazione che non convince davvero. Il refrain della confessione con l’amico prete (un William H. Macy zazzeruto che lascia molto perplessi) è un espediente di sceneggiatura che ha il doppio scopo di creare un diversivo agli incontri con la terapista sessuale e di offrire una sponda da commedia al protagonista. Obiettivo raggiunto, a giudicare dalle reazioni del pubblico in sala, divertito dagli imbarazzi un po’ stucchevoli del padre cattolico e disposto ad intenerirsi per le umane debolezze del personaggio centrale. Le donne che circondano il protagonista sono tutte amorevoli e comprensive (con l’eccezione della prima infermiera, matronale ed arcigna, che viene significativamente allontanata dopo poche battute. Sarà un caso che fosse l’unica brutta?) e permettono l’idealizzazione femminile.
Non è un caso neppure che, di fronte al sentimento che si inizia ad instaurare tra Mark e Sheryl, la sceneggiatura glissi, facendo intuire l’innamoramento, ma concentrandosi sull’eccezionalità del protagonista, punto di riferimento per una piccola cerchia di amici, silenzioso eroe del quotidiano che non la dà vinta alla malattia e l’affronta con le armi dell’ironia e del coraggio nel cercare una vita “normale” come quella di tutti gli altri. Un film, in definitiva, chiaramente autoreferenziale, come tanta parte del cinema d’oggi, soprattutto americano. Non significa che sia un brutto film. Ma se cercate uno sguardo più libero sul tema (per quanto il film fosse discutibile, e pure parecchio) ripescate piuttosto Balla la Mia Canzone (1998) di Rolf De Heer.