Lo diceva bene Dostoevskij nella sua caratteristica prosa romanzesca: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”. Di fronte ai misfatti degli squadroni della morte indonesiani nella seconda metà degli anni 60, più che indignarsi occorre interrogarsi sui massimi sistemi. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer non è semplicemente un lavoro di riflessione metacinematografica (come ha detto un po’ ovunque la critica, ribadendo l’ovvio), ma anche un concentrato di questioni spinose che giacciono neglette ai bordi della cultura contemporanea.
Ci si può scandalizzare per le pantomime di Anwar Congo, Herman Coto e di tutti i loro sodali della Gioventù di Pancasila. Però non ci si accorge che gli strumenti a nostra disposizione per condannarli sono pateticamente spuntati. Non si tratta del mero prendere atto che qualsiasi giudizio morale o materiale è decretato dalla cultura (e dal regime) dominante, come fu per il processo di Norimberga. Quello sarebbe ancora poco. Il guaio è che il più aberrante dei genocidi può essere facilmente esecrato nella coscienza democratica, ma nient’altro. Il film di Oppenheimer, con insistenza herzoghiana, lo palesa brutalmente: anche trascinati davanti a una corte di giustizia internazionale, questi criminali potrebbero sempre invocare la transitorietà della legge. Un giorno potrebbero valere le leggi di Giacarta e a quel punto gli assassini sarebbero persone rispettabili ovunque, non solo in patria. Buona parte del fascino surreale del lavoro di Oppenheimer nasce da questo provocatorio postulato. Di fronte a temi di tale portata, cosa può il cinema? In realtà ben poco. Mentre si guarda il film, non si riesce a sfuggire ad una disturbante sensazione di impaccio. Più che il fastidio per le vicende rievocate, tragiche ma simili a quelle che uno spettatore consapevole ha più volte incontrato nei film sull’Olocausto e sui desaparecidos delle dittature sudamericane, ci si trova a fare i conti con l’impotenza del mezzo. La ricostruzione del fatto storico attraverso la finzione appare grottesca e innocua. La ri-messa in scena dell’orrore con un’ampiezza di stratagemmi, di penetranti punti di vista e di uno spettro di idee che potrebbero riempire dieci film, rimane al di qua di una frontiera invisibile. Quando lo stimato carnefice Anwar Congo al culmine della rappresentazione confessa di avere avvertito per qualche istante quello che potevano provare le sue vittime, il regista gli fa notare che tra finzione e verità c’è una differenza incolmabile. È abbastanza per sancire l’impotenza del pensiero e della rielaborazione artistica, capaci nel migliore dei casi di una pallida approssimazione? Non sappiamo, però Oppenheimer lambisce quest’ultima prospettiva (forse involontariamente, va detto), sebbene respingendo sempre l’horror vacui con il flebile schermo del metafilmico. Il cinema, che non può offrire riparo alla coscienza, è invece pronto a illuderci nel senso leopardiano del termine. All’orrore del nichilismo non c’è forse rimedio nella contemporaneità; però nelle illusioni l’uomo può vivere, benché a costo di una straniante retorica e di una terribile ambiguità. Che per un film di denuncia è un approdo malcerto, ma non per questo meno importante.