Era dal 1994 che Tim Burton non girava in b/n, dai tempi del non eccelso Ed Wood, il film sul peggior regista della Storia del cinema,che fu uno dei suoi più grandi insuccessi, di sicuro il più costoso.
Come spiegare questo ritorno di fiamma alla scala di grigi, per l’autore di Edward mani di forbice? Con la “moda” del b/n e nero (e se di moda si dovesse trattare, ben venga, sarà molto ben accetta) forse Burton è riuscito a far accettare dalla major questo suo vecchio progetto: trasformare in lungometraggio uno dei suoi primi corti. Ma non avrebbe mai potuto girarlo a colori. Il b/n era fondamentale. Di conseguenza, il mercato ha contribuito a creare un contesto favorevole allo sviluppo di quest’idea. Di produzioni in b/n ce ne saranno a bizzeffe nei prossimi mesi, da Blananieves di Pablo Berger, al Tabù di Miguel Gomes, al Franics Ha di Noah Baumbach.
Riguardo a Frankenweenie Burton ha composto l’ennesima elegia funebre al suo cinema, al suo immaginario che dopo Alice e Dark Shadows si era oltre modo brandizzato e ampiamente sterilizzato. Il film racconta di un adolescente (che fa di nome Frankenstein, la metafora non c’è nemmeno, tanto il gioco è risaputo e scoperto) che si inventa scienziato pur di far resuscitare il cane morto, dopo essere stato investito da un auto. La notizia del segreto di Frankenstein si diffonde e tutti i suoi compagni di classe lo imitano, così da infestare l’intera città di mostri.
Burton mischia bene le carte e si vede che non ha alle spalle un controllo asfissiante da parte della produzione. C’è persino una ragazzina che mostra ai suoi compagni le cacche del suo cane definendole segni del destino. L’ilarità è terra terra e sorprende fino ad un certo punto. Con Burton si ha a che fare con una Wonderland al contrario, dove le meraviglie fanno sempre rima con raccapriccio e spavento.
Tim Burton ormai non innova più, si sente nel suo cinema una pesante ridondanza retorica, ma forse più che altro una netta sensazione di deja-vu, di un autore che replica una stessa formula ormai all’infinito, pensando che ormai il pubblico sia talmente assuefatto ai suoi prodotti da non chiedere variazioni sul tema. Tanto anche se le chiedessero Burton non riuscirebbe a cambiare contesto e/o registro.
Ci provò una volta, con il suo film più arrischiato, l’unico film realista che abbia mia girato, Big Fish, i fan della prima ora non capirono il gesto e videro solo un regista in panne che non sapeva più costruire mondi mercuriali e diversi.
Per Burton il tempo dello stupore è finito, ma forse p finito anche quello dei film sbagliati. Frankenweenie non appartiene né alla categoria delle invenzioni sostenute da una retorica furoreggiante, né a quella dei film su commissione, fa parte semmai di quella categoria di cinema che funziona solo perché ripete uno schema rivisto milioni di volte. Il b/n aiuta moltissimo ad immedesimarsi in questa ennesima pantomima della diversità.
Burton si crea il proprio mondo dei morti consapevole di non avere altra realtà se non quella della perseveranza verso un luogo impervio e desueto, che è il suo cinema, ormai sfatto, perfettamente elastico ed ecumenico, non avendo più storie da raccontare, le prende da un passato sempre più lontano.
Il bambino che è in lui sta ancora dormendo vani sogni di gloria. Qualcuno dovrebbe decidersi a svegliarlo.