J. D. Salinger è stato uno dei più grandi scrittori del '900. Il documentario racconta la sua vita attraverso le interviste a chi lo ha conosciuto: amici, colleghi e personaggi illustri. I fIlmati e le fotografie fanno da contrappunto visivo al racconto.
Diretto da: Shane Salerno
Genere: documentario
Durata: 120'
Con: J. D. Salinger, Philip Seymour Hoffman
Paese: USA
Anno: 2013
“Nessuno potrà mai dire qualcosa che riesca realmente ad aiutare gli altri. Ciascuno di noi deve costruirsi la propria strada. Per quello che ne sa lei, io sono soltanto un padre di famiglia. Ha visto mio figlio in macchina, poco fa, no? Non sono qui per aiutare le persone come lei. Non sono un insegnante, non sono un chiaroveggente. Non sono uno psicologo. Forse nelle mie storie arrivo a porre domande sulla vita, ma non pretendo di conoscere le risposte. Se vuole chiedermi qualche consiglio di scrittura, posso dirle qualcosa. Ma non sono uno psicologo, sono un romanziere.” (New Hampshire, 1978. Salinger risponde a Michael Clarkson, un fan invadente – Tratto da “Salinger”, di David Shields e Shane Salerno).
È tempo di grande revival attorno al mito di JD Salinger. In questi giorni, in Italia, esce sia la monumentale biografia scritta a quattro mani da David Shields e Shane Salerno, che il documentario girato dallo stesso Salerno e la nuova traduzione da parte dell’Einaudi de “Il giovane Holden”. Era tutto necessario? C’è, in questa ostinata e morbosa ricognizione, una ragione d’essere che comprenda una nuova visione dell’opera, un rilascio di notizie inedite e dettagli fondamentali per la sua comprensione o la possibilità di ricollocarla e aggiornarla all’interno di un nuovo discorso generazionale: un ribelle classico come Holden potrebbe oggi trascorrere un weekend in compagnia di un gruppo di millennials?
La visione del documentario di Shane Salerno, la parte cinematografica del trittico, lascia una sensazione che chiameremo, generosamente, contraddittoria. Qualunque sia l’intento originario di questo documentario, il risultato finale non è né chiaro né, tantomeno, esaltante. A parziale scusante c’è la lunga gestazione delle interviste e dei materiali. Salerno, dopo la morte di Salinger, avvenuta nel gennaio del 2010, riscrive e rimonta il documentario praticamente già finito: alcune persone che fino ad allora avevano preferito tacere per rispetto dello scrittore, adesso lasciano fluire i ricordi.
Tutti questi piccoli interventi formano una complessiva storia orale che raramente si discosta dal risaputo, dal gossip. Manca un’idea forte, una narrazione sul viaggio poetico, e un profondo senso di rispetto per le stanze che si sono visitate: ci si dimentica spesso che qui si parla di letteratura, di grande letteratura. Non ci sarebbe piaciuto, ma sarebbe stato plausibile l’utilizzo di Salinger come stella pop, una ricognizione sul suo esilio e le conseguenti reazioni sulla civiltà dei mass media, ma qui viene disattesa completamente anche la più semplice forma di quella che David Foster Wallace chiama Narrativa d’immagine. La falla principale del lavoro è l’atteggiamento stalkerish e voyeuristico sul soggetto; un’indagine superficiale, quasi esclusivamente fenomenica: anche la sfilata di dichiarazioni delegata a un folto manipolo di big dello spettacolo (Philip Seymour Hoffman, Edward Norton, Judd Apatow, John Cusack, Martin Sheen) appare un espediente prossenetico.
Salinger era il figlio prediletto di una nazione che vive le incoerenze tra retorica (sociale, politica, religiosa e massmediale) e il vissuto – attrito che germina quasi sempre in qualcosa di culturalmente nuovo – come tacito modello progressista. Invece, in questo caso specifico, la religione e riti degli adepti dello scrittore, la sua fortuna critica, non creano nessuna profondità con la realtà raccontata e quasi morbosamente mostrata dagli autori.
Uno dei pochi tentativi interpretativi sui testi, è anche il più sciagurato. Si cerca di collegare The catcher in the rye ad una serie di omicidi o attentati, come quelli di Lennon, Reagan, Rebecca Schaeffer; presupponendo, con una psicologia da gonzi, che la carica negativa del disturbo post-traumatico da stress, riportato da Salinger durante la seconda guerra mondiale, si fosse riversato sul romanzo. Ma, come tutti sanno, J.D. Scrisse buona parte del materiale su Holden Caulfield già prima di partire per la guerra, e addirittura il New Yorker non gli pubblicò un racconto che aveva Holden come protagonista, nei giorni dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, proprio perchè fuori sincrono rispetto alla temperatura emotiva dell’epoca. Inoltre, indagando più accuratamente, si viene a sapere che John Hinckley Jr., l’attentatore di Reagan, con il suo gesto folle cercava l’attenzione di Jodie Foster, e Robert John Bardo, il criminale che uccise l’attrice Rebecca Schaeffer, invece dichiarò come la canzone degli U2, Exit, fosse la molla propulsiva per il gesto finale. Insomma, più dell’”efferata violenza” di un adolescente che vorrebbe essere colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale, potè un disordinato, insensato, corollario di riferimenti pop, e potè la percezione disturbata di un agognato star system, fagocitato attraverso la superficie delle cose, tramite il modus operandi di cui è imbevuto anche lo stesso documentario.
Forse questo è l’abituale dazio da pagare quando uno sceneggiatore di film di fantascienza (Armageddon, Alien, Avatar 4) e di realtà insulsamente aumentata (Savages, di Oliver Stone) come Salerno, incontra uno scrittore pigro come Paul Alexander e l’influenza traviante di David Shields (noto principalmente per un saggio, Fame di realtà, dove a furia di copia&incolla, cerca di convincerci, tra le altre cose, che non sussista differenza tra plagio e mimesi letteraria, e come l’arte del romanzo tradizionale suoni ormai artificiosa).
Dunque, oltre all’imponente e interessante, quella sì, raccolta iconografica, questo documentario ha il merito di riconfermare che la letteratura, come il sesso e il football, ha una difficoltà di rappresentazione molto elevata – soprattutto quando non sussiste aderenza tra forma e contenuto. Il linguaggio filmico di Salerno non contempla i motori primi della poetica salingeriana: il tentativo di preservare una certa purezza dell’anima e il suo umorismo precario, che nasce e muore nel volgere di una frase.
Ben più seria e onesta sarebbe stata una perlustrazione sui rapporti tra storia e opera, sul sentimento dell’epoca e sul percorso personale dello scrittore, tanto più vista la sua cronaca militare. Considerare le sottili contraddizioni del grande successo di Salinger/Holden contemporaneamente al decisivo approdo del sogno americano nel mondo; osmosi iniziata da Roosvelt con l’accoglienza dei più grandi intellettuali europei durante gli anni ’30, ed estesa alla liberazione dai nazisti con il conseguente Piano Marshall per l’Europa. Come sarebbe stato interessante valutare l’inizio dell’esilio e la fine delle pubblicazioni proprio quando, a metà anni ’60, inizia la contestazione e si aprono le prime crepe sulla buona coscienza del dopoguerra; quasi si creasse un chiasmo tra il percorso emotivo dello scrittore e l’immaginario collettivo di una nazione e del suo indotto politico e culturale.
Pressochè superfluo aggiungere che riusciremo a intuire più a fondo l’anima di Salinger e la sua storia personale, utilizzando le due ore e dieci minuti della durata del documentario, per leggere e rileggere due dei suoi meravigliosi racconti: Un giorno ideale per i pescibanana e Per Esmé: con amore e squallore. Il resto è pettegolezzo.