Josh è un bambino con dei problemi. Sua madre chiama una donna specializzata nei fenomeni paranormali, Elise. Quest'ultima ipnotizza Josh e scopre che ha dei poteri paranormali.
Diretto da: James Wan
Genere: horror
Durata: 106'
Con: Patrick Wilson, Barbara Hershey
Paese: USA
Anno: 2013
Insidious: dove eravamo rimasti? Non è questo il nodo, considerando lo scaltro pragmatismo hollywoodiano per il quale ci s’ingegna di fare sequel che veri sequel non sono, perché possano funzionare (anche) da storie autonome e prendere due piccioni con una fava – chi si aspetta il to be continued del primo capitolo e chi, non avendolo visto, vuole semplicemente fruire di un film nuovo.
Così, in Oltre i confini del male – Insidious 2, questo indirizzo di produzione, maleficamente perseguito da chi già gestisce abilmente il franchising dei Paranormal Activity (Jason Blum ed Oren Peli), comporta un cambio di strategia, rispetto ad una storia che poteva dirsi virtualmente conclusa. Stesse facce: la famiglia perseguitata del primo film si trasferisce dalla nonnina, per morire tutti insieme appassionatamente – visto che, James Wan insegna, sono le persone, e non le case, ad essere infestate.
Il padre Josh (Patrick Wilson) è reduce dall’aver tratto in salvo il figlio Dalton dal limbo dell’Altrove in cui era precipitato, ma la medium che l’ha guidato nell’impresa, Elise (Lin Shaye), ne è rimasta morta… strozzata. E il film parte con un vertiginoso zoom in, dietro una porta rossa, nel nulla, fino ad un puntino che s’ingrandisce e diventa la spoglia stanza dove un detective interroga la madre del bambino, Renai (Rose Byrne), mettendole dubbi in testa sul marito piuttosto che trovando risposte. Ma la vera detective è la madre di Josh, Lorraine (Jocelin Donahue): forse perché sa che il figlio, già da bambino, aveva avuto esperienze paranormali, proprio con Elise.
Reduce dal successo de L’evocazione, James Wan torna nelle sale cinematografiche con un film che si distanzia sia dal suo horror più recente, che dal suo stesso diretto predecessore. Non può essere poi così tanta la serietà, quando nel film si ha modo di “apprezzare” fantasmi che prendono a sganassoni la figlia della padrona di casa (infestata), oppure quando l’indagine paranormale è condotta con mano ferma (che regge una quesadilla, o alternativamente un panino) da una coppia di ghostbusters tipo Stanlio ed Ollio; quando il padre che dà di matto, tipo Jack Torrance di Shining, attacca la moglie tirandole una teiera – e potete immaginare come degeneri lo scontro: a padellate. Il finale aperto, e pressoché staccato dal corpo della storia, sembra poi originare un ovvio terzo capitolo, verosimilmente a cura della stessa produzione, ma soprattutto della coppia Wan – Whannell, quest’ultimo inventore dei personaggi.
Il risultato è un effetto fiction: ottima fiction di paura, beninteso; senza la strizza de L’evocazione (non può esserci, se si punta ad abbassare il tiro); con tanti difetti volutamente non mascherati nella sceneggiatura; ma in fin dei conti diversamente efficace, in grado di spaventare – ma sì, anche d’interessare – con una strategia diversa.
Quale strategia diversa? La solita. La più vecchia del cinema. 1) Sobbalzi ad orologeria; 2) un pacchiano trucco più halloweeniano che hollywodiano, ma maledettamente efficace; 3) l’inserto di elementi thriller. E così, abbiamo rispettivamente: 1) accelerazioni improvvise, al limite del cinematically correct; 2) un paio di fantasmi piuttosto spaventosi, una sposa in nero che pare fuoriuscita da qualche horror italiano degli anni ’70, ed una sposa in bianco con i denti iniettati di sangue; 3) un’indagine ex post su un serial killer.
Il tutto, catapultato 1) negli anni duemila, epoca del found footage: e vedansi i larghi tratti centrali, con la ricognizione nella casa abbandonata ed in quell’ospedale dismesso che sa tanto di Esp – Fenomeni Paranormali Incontrollabili; 2) in una casa vittoriana, in cui ti par di sniffare naftalina e perderti negli scantinati adibiti a lavanderie, con ogni sorta di funzionale movimento di camera per farti sentire braccato o nella stanza accanto di un fantasma che prende il tè; 3) nel tempo, che si smaterializza e si complica, tra l’Altrove del primo film – sempre suggestivamente ripreso nella nebbia di una fotografia livida e decontestualizzante – e l’altrove dei flashback, in una partita doppia che si gioca tra pericolo immediato e causa del male, a giovamento della vena thriller di questo secondo capitolo.
Anche se L’evocazione, ma lo stesso Insidious, avevano mostrato la possibilità, per il cinematografo, di far venire ancora la pelle d’oca, le patetiche smorfie di Patrick Wilson quando dà di matto, o cerca solo di essere ambiguo, farebbero pensare che, almeno in questa prosecuzione di franchising – ormai di questo si tratta – non è più tempo degli Shining, ma di qualcosa di più leggero, in stile Medium con Patricia Arquette: non a caso, è il team di sensitivi a diventare centrale, fino a letteralmente raccogliere il testimone col personaggio di Elise.
Destinato evidentemente ad un terzo capitolo, Oltre i confini del male – Insidious 2 non trapassa i confini di una sceneggiatura di basso profilo, puntando su una svolta mystery, su trucco e trucchi dell’horror classico, variati all’infinito e ricontestualizzati negli anni del found footage e della paura seriale.